La normalità del barocco operistico 

A Francoforte la ripresa del riuscito Rinaldo di Händel con Jakub Orliński protagonista e per Winter in Schwetzingen un nuovo allestimento de La verità in cimento di Vivaldi con qualche ombra 

Rinaldo
Rinaldo
Recensione
classica
Frankfurt am Main, Bockenheimer Depot
Rinaldo
12 Gennaio 2019 - 25 Gennaio 2019

Se è lecito trarre qualche conclusione dal Rinaldo di Francoforte, che in contemporanea propone anche la ripresa del Serse all’Opernhaus in attesa della Rodelinda prevista a fine stagione, e da La verità in cimento di Winter in Schwetzingen, realtà oramai ultradecennale, è che l’eccezione è finita e che il barocco operistico è entrato in una fase di normalità. E questo anche nell’oliata industria operistica del super-regolato sistema di repertorio tedesco. Insomma, non è più materia per soli specialisti (interpreti ma anche spettatori) e il barocco è sdoganato e entra nelle abitudini di ascolto di un pubblico vasto. Un segnale chiaro viene appunto dalla ripresa del Rinaldo, è il caso di dire, “a furor di popolo”. Non è solita infatti l’Oper Frankfurt riprendere le sue produzioni al Bockenheimer Depot, ma il grande successo in parte inatteso di questa produzione andata in scena un anno fa ha convinto a riconsiderare le consuetudini della casa. E che la scelta sia stata sensata, lo dicono le sei recite in programma esaurite già da tempo. 

È certo che Rinaldo è una delle opere di Händel più accattivanti tanto sul piano musicale quanto su quello teatrale per l’estrema varietà di affetti e per una vicenda che mescola abilmente epos cavalleresco, trama sentimentale e motivo magico, tutti prestiti tassiani certo ma ripresi in una folgorante sintesi drammaturgica. Proprio grazie a questi ingredienti funziona benissimo l’allestimento di Ted Huffman con le scene di Annemarie Woods e i bei costumi di Raphaela Rose di foggia seicentesca per i paladini e “total black” per i saraceni, che riducono davvero all’essenziale la macchineria barocca. Via gli orpelli, resta una pedana vuota fortemente inclinata con pochi elementi di attrezzeria a suggerire gli ambienti (tre alberi per il luogo di delizie dove cantano gli uccellini di Almirena, una grande prua per la nave che rapisce Rinaldo irretito dalle sirene, e tre funi con cui le furie al servizio di Armida straziano Rinaldo prigioniero) e uno strepitoso disegno luci di Joachim Klein per ricreare le magie immateriali dell’immaginifico libretto. Il resto lo fanno i movimenti coreografici di Adam Weinert che coinvolgono i sei cantanti e gli otto danzatori-figuranti. 

Per vigore vocale e prestanza fisica, esaltata in questo spettacolo, splende il luminoso Rinaldo di Jakub Józef Orliński, che modula abilmente uno strumento vocale flessibile e agile adattandolo alla ricca tavolozza espressiva del personaggio, eroe e amante. L’articolata successione di numeri che chiude il primo atto è semplicemente superlativa, dallo straziante lamento di “Cara sposa” al nobile riscatto di “Venti turbini, prestate”. Molto riuscite anche le prove delle due rivali in amore Karen Vuong, una sentimentale Almirena appena un po’ monocorde nell’espressione, e Elizabeth Reiter, un’Armida di temperamento focoso e grande grinta scenica. Gordon Bintner è un Argante di forte presenza ma stilisticamente un po’ approssimativo. Completavano il cast Julia Dawson, che vestiva i panni di un fisicamente decrepito Goffredo ma anche vocalmente piuttosto fragile, e Daniel Mirosław, un Eustazio di forte carattere. Simone Di Felice torna sul podio anche per questa ripresa per una esecuzione che sorprende per cura del dettaglio strumentale e bellezza di suono. Della Frankfurter Museumsorchester sorprende soprattutto la maturità stilistica acquisita in questo repertorio: anni di frequentazione nel barocco si sentono e evidentemente hanno dato buoni frutti, così come funziona l’innesto di strumenti originali (i fiati, trombe naturali comprese, e il basso continuo) nel corpo tradizionale dell’orchestra. 

L’accoglienza calorosa per tutti gli interpreti, con ovazioni per Orliński, fanno ben sperare che si possa rivedere una seconda ripresa nella prossima stagione. 

 

Molto pubblico anche al Rokokotheater del Castello di Schwetzingen ma meno entusiasmo invece per il nuovo allestimento del raro titolo vivaldiano, La virtù in cimento prodotto dal Theater Heidelberg nell’ambito dell’annuale rassegna Winter in Schwetzingen. La regista Yona Kimattualizza l’intricata vicenda familiare, di sapore orientale nell’originale, dei due figli del sultano di Cambaja Mamud, Zelim e Melindo, avuti rispettivamente dalla consorte Rustena e dalla favorita Damira e da quest’ultima scambiati in culla per assicurare al proprio vero figlio un avvenire luminoso. Alla vigilia delle nozze politiche di Melindo con la sultana di Joghe Rosane (a sua volta amata da Zelim), Mamud vuole rivelare l’inganno ma l’intrigante Damira si oppone come può. La rivelazione arriva così come l’inevitabile lieto fine in cui tutto si ricompone: Il legittimo erede al trono Zelim rinuncia alla mano di Rosane, che convolerà a nozze con Melindo, coronando così le aspirazioni sociali della vera madre Damira. Interni borghesi contemporanei nella scena fissa di Jan Freesedivisa in spazi domestici diversi e costumi di Falk Bauerche sono il solito repertorio di banalità oramai convenzionali (auspicabile sarebbe una moratoria sui veli da sposa, inevitabili quasi quanto le divise militari nelle scene tedesche). Di situazioni déjà vu e di triti cliché si nutre anche la regia, che comunque ha il merito di non interferire troppo nell’esposizione della vicenda. Molto scontata ormai nell’era del #MeToo anche la “sorpresa” del finale con Rustena che estrae un revolver dalla borsetta e lo punta verso al marito Mamud. Ressegnamoci.

Piuttosto disuguale è il comparto vocale. Deludenti sono le prove dei due controtenori David DQ Lee, che del Melindo cui Vivaldi riserva le arie più virtuosistiche vanta pochissime qualità (e, si direbbe, non solo per l’annunciata indisposizione), e l’acerbo Philipp Mathmann, un miagolante Zelim balbettante anche sul piano scenico. Più interessante la componente femminile, che trova in Francesca Lombardi Mazzulli una Rosane di carattere, scenicamente disinvolta e di elevata caratura vocale, in Franziska Gottwald una Damira ben disegnata e di pregevole musicalità, e in Shahar Lavi, una Rustena elegante ma un po’ anodina. Completa il cast il tormentato Mamud di Francisco Fernández-Rueda tratteggiato con una certa classe. Anche in questo Vivaldi la lezione delle pratiche esecutive storicamente informate si sente tutta nelle scattanti dinamiche e nella varietà coloristica (fondamentale in Vivaldi) imposta dal giovane direttore Davide Perniceni alla tradizionale Philharmonisches Orchester di Heidelberg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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