La Fenice riapre con la sacra rappresentazione del Faust
Dopo otto mesi riapre al pubblico il teatro veneziano con un riuscito allestimento dell’opera di Charles Gounod con uno strepitoso Alex Esposito
Strano destino quello che lega il Teatro La Fenice al Faust di Gounod: è l’opera con la quale il teatro lirico veneziano riapre dopo una chiusura legata a eventi storici. Capitò nel 1866 quando il teatro riaprì dopo la lunga chiusura fra la seconda e la terza guerra di indipendenza. Capitò ancora nel 1920 quando riaprì dopo l’epidemia di spagnola seguita alla prima guerra mondiale. Capitò anche nel 1946, terminata da poco la seconda guerra mondiale. E capita di nuovo ora che, dopo la parentesi aperturista della scorsa estate e il secondo lockdown iniziato lo scorso ottobre, il teatro riapre le sue porte al pubblico per la seconda volta che, si spera, definitiva.
La platea del teatro è di nuovo inaccessibile al pubblico, sistemato nei palchi e nelle gallerie, e si presta dunque di nuovo a servire da spazio per l’azione scenica per questo nuovo Faust, immaginato dal regista Joan Anton Rechi come una sorta di sacra rappresentazione medioevale in cui a trionfare è invece il demonio. La scena, dunque, è la grande cavea del Selva ripensata come l’interno di una cattedrale illuminata dalla luce filtrata dai colori di un rosone immaginario e popolata di panche per i fedeli (l’efficace disegno luci è di Fabio Barettin. Un prete medita quando il pubblico prende posto, prima dell’ingresso dei protagonisti vestiti con i costumi disegnati dallo stesso Rechi, che cita quelli di Piero Tosi e Marcello Escoffier per il celebre Senso di Luchino Visconti fra dame in crinolina e soldati in divisa austriaca. Il Medioevo di Goethe è assente ma c’è Gounod e il suo gusto francese e ancora di più c’è l’immaginario del teatro che ospita questa sulfurea liturgia officiata da un Mefistofele demiurgo in marsina e cilindro, che imperversa in sala e scena come un consumato attore di varietà (la beffarda serenata “Vous qui faites l’endormie” la balla in palcoscenico con bastone e cilindro sotto un occhio di bue) e infierisce sulle sue vittime con feroce nonchalance. Rechi guida questa “Totentanz” senza redenzione con efficacia, muovendo abilmente le masse fra platea e incursioni in palcoscenico (l’allucinata scena della chiesa con Marguerite sola in platea, i soldati che tornano dalla guerra, la notte di Walpurgis) con solo qualche ridondanza fuori luogo e una certa sguaiataggine grandguignolesca nel finale.
Assemblato con mano felice il cast vocale, dominato da uno strepitoso Alex Esposito come Méphistophélès in smagliante forma vocale e attore a tutto tondo. Ivan Ayon Rivas è un Faust vocalmente affidabile anche se un po’ monocorde sul piano del fraseggio, mentre la Marguerite di Carmela Remigio cresce sulla distanza e si impone soprattutto per la densità drammatica che esibisce nell’epilogo tragico. Del tutto riuscite anche le prove di Armando Noguera come Valentin e specialmente di Paola Gardina nel suo Siébel reso con la giusta combinazione di sensibilità e leggerezza, così come il Wagner di bella presenza anche vocale di William Corrò e la spiritata Marthe di Julie Mellor. Una prova notevole è anche quella del Coro del Teatro La Fenice istruito da Claudio Marino Moretti che si impone per qualità vocale ma anche per presenza scenica, fondamentale in questo allestimento. La robusta bacchetta del direttore Frédéric Chaslin tiene efficacemente le fila del discorso musicale, nonostante l’articolata distribuzione delle masse con l’orchestra in buca e gli interpreti distribuiti in sala e in scena. Ben assecondato dall’Orchestra del Teatro La Fenice in gran forma, non manca nessuno dei grandi momenti dell’opera di Gounod in un efficace gioco fra leggerezza molto francese e forte temperie drammatica.
Esauriti tutti i posti disponibili alla prima. Il pubblico, un po’ freddo durante lo spettacolo, saluta tutti gli interpreti con calore.
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