La Calisto tra scienza e mitologia
Cavalli affascina la Scala con Rousset e McVicar
A trecentosettant'anni dalla prima del Teatro San Apollinare di Venezia La Calisto di Francesco Cavalli arriva alla Scala; direttore Christophe Rousset sul podio dei suoi Talents Lyriques e di un nucleo dell'orchestra scaligera che suona strumenti storici, per il nuovo allestimento di David McVicar. Una gradita sorpresa perché il repertorio della musica antica mancava da tempo al Piermarini e anche perché lo spettacolo è ben riuscito, superando con eleganza il perenne rischio d'incongruenza fra l'ortodossia dell'esecuzione musicale che riporta indietro nel tempo e la diffusa smania per la messa in scena "attuale". McVicar si limita a ricordare che il Seicento è anche il secolo di Galileo e infatti piazza sul palco un enorme telescopio, emblematico della ricerca scientifica, puntato verso il cielo stellato. In questo osservatorio astronomico non viene tuttavia evocata alcuna scoperta, ma le disavventure della ninfa Calisto che si concede a Diana ignorando che si tratti di una metamorfosi di Giove e per questo è mutata in orsa da Giunone gelosa. A farla ascendere al cielo nobilitandola come costellazione ci pensa poi Giove, insomma gli dei falsi e bugiardi prendono il sopravvento su Galileo. Una volta dimenticata la stridente contrapposizione scienza-mitologia, allo spettatore non rimane che lasciarsi coinvolgere dall'insensato groviglio amoroso, inventato in parte da Ovidio e ripreso dal librettista Giovanni Faustini per Cavalli. Principali complici del raggiro la brava e bella Chen Reiss nel ruolo del titolo e la coprotagonista Olga Bezsmertna nei panni di Diana e di Giove tramutato in Diana. Al loro fianco il controtenore Christophe Dumaus in veste del pastorello Endimione, l'unico ad avere familiarità col telescopio in quanto innamorato della dea (in quanto Luna), promosso astronomo dal regista con tanto di costume alla Frans Hals e stranianti scarpe da tennis. Non si capisce però come mai alla fine non se ne vada come previsto sui monti con la sua Diana, ma venga abbandonato da lei (forse perché addormentato o morto). Tutto il cast è di ottimo livello, Luca Tittolo (Giove), Markus Werba (Mercurio), Véronique Gens (Giunone); una speciale menzione merita la buffa e spiritosa coppia di Damiana Mizzi (Satirino) e Chiara Amarù (Linfea). E con loro la banda sguaiata dei satiri, impegnati anche in una coreografia su musiche di Frescobaldi (all'epoca il compositore del balletto era diverso da quello dell'opera e non c'è traccia di costui). In perfetto accordo con tutti loro le sonorità che escono dalla buca dell'orchestra, sollevata per l'occasione quasi a livello del palco. Ventidue sono gli strumentisti, ma l'impatto è spesso anche violento, oltre che ipnotico per secchezza di timbro e precisione (qualche piccola défaillance si è sentita, ma poco male). Christophe Rousset, grande specialista di early music, che si è anche dedicato a ricostruire filologicamente quanto non è scritto in partitura, ha un controllo perfetto e senso unitario del tutto, riesce perfino a trasmettere in sala le gioia nel dirigere questo raro gioiello musicale. A completare il buon esito i costumi secenteschi ricreati da Doey Lüthi e le scene di Charles Edwards con le finestre sul fondo che permettono squarci di paesaggi boschivi, vedute di Venezia, marine. E ha inventato un sontuoso e spiritoso trono-montacarichi per Giove che gli permette di ascendere al cielo con la ninfa.
Per tirar le somme rimane solo da segnalare l'ottima accoglienza del pubblico, finalmente al gran completo in sala, e il gran piacere dell'ascolto. Se poi ciò non bastasse e volessimo invece arrovellarci con significati più profondi e arcani (perché La Calisto è più complicata di quanto sembra) ci bastino i battibecchi di Natura (John Tessier), Eternità (Federica Guida) e Destino (Svetlina Stoyanova) nel prologo per rispolverare alcuni temi della scuola neoplatonica. Oppure l'apoteosi finale della ninfa che, nonostante la museruola che la zittisce (secondo McVicar una punizione per le donne loquaci ancora in uso in Gran Bretagna fino al Settecento), ringrazia come "umile ancella" per l'onore ricevuto, quasi una citazione dell'Annunciazione.
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