La Biennale e il retrovisore
La prima parte della Biennale Musica 2020 di Venezia lasciando qualche dubbio
I primi giorni della Biennale Musica 2020, l’ultima sotto la direzione di Ivan Fedele, si sono aperti con un lungo sguardo retrospettivo, che ha riempito il programma più di nomi e lavori storicizzati che di novità.
La questione non è nuova e sta diventando sempre più rilevante nella riflessione generale sui festival e le rassegne che si occupano di "musica nuova": la funzione di “luogo” deputato di un repertorio tardo novecentesco (ma a volte anche precedente) che i circuiti concertistici e operistici, specialmente in Italia, tengono pervicacemente alla larga dai propri cartelloni, si affianca ormai stabilmente alla presentazione di nuovi lavori e andrà capito, specialmente in prospettiva futura, che tipo di qualità e riflessioni curatoriali richiederà questa tendenza, posto che il mero inserimento in programma di un “classico” o di una “rarità” di qualche compositore o compositrice post-bellica non può ridursi al «ah beh, ottimo, tanto non si ascolta mai…» o alla speranza che un cognome un po’ più noto nel comunicato stampa attiri lo sguardo svogliato di qualche caposervizio di provincia.
– Leggi anche: Frank Zappa alla Biennale Musica. Tempo scaduto?
Dopo la serata di consegna del Leone d’Oro al compositore spagnolo Luis De Pablo (classe 1930, solo 5 anni di meno di Berio e Boulez per capirci) di cui, insieme ai recital pianistici, ci riferirà Stefano Nardelli in un altro articolo, il Teatro Piccolo Arsenale ha ospitato una serata interamente dedicata a Luigi Nono.
Si entra ordinatamente – l’organizzazione è eccellente e si godono i concerti in sicurezza, tra termoscanner facciali, igienizzatori, mascherine che ti fanno salutare un po’ tutti (chissà poi se era lui o no?) e distanziamento dei posti – per assistere a un programma incentrato su tre lavori piuttosto famosi, che indagano il rapporto tra lo strumento e l’elettronica.
...sofferte onde serene… del 1976 è un brano storicamente legato alla figura di Maurizio Pollini e l’attualizzazione tentata dal pianista Francesco Prode in dichiarata contrapposizione a una sorta di congelamento interpretativo (lo spiega qui) non convince, spesso dinamicamente poco fluida, nonostante le intenzioni del musicista.
Decisamente più riuscita è Post-prae-ludium n. 1 per Donau. Qui un eccellente Arcangelo Fiorello non solo dimostra una grande padronanza tecnica, ma trova le misure giuste per giocare con i live electronics, riproponendo in modo a tratti scintillante questa pagina originalissima del Nono più tardo (si era nel 1987).
La conclusiva esecuzione di La lontananza nostalgica utopica futura ha pagato un po’ il limite della dislocazione dei leggii in uno spazio tutto sommato tradizionale come il Piccolo Arsenale, con il violinista Francesco D’Orazio (eroico in fondo nel suonare con mascherina e fili del microfono e dovendo muoversi su e giù per gli scalini della platea) che ne rende a tratti la straordinaria lucentezza di soluzioni insieme all’elettronica, controllata da una garanzia di perfezione come Alvise Vidolin.
Nel pomeriggio della domenica, con l’Arsenale già spazzato dalle prime ventose avvisaglie dell’autunno, l’Ensemble svizzero Contrechamps ha presentato due lavori della compositrice inglese Rebecca Saunders e uno dello svizzero Jacques Demierre.
La prima italiana di Scar, recente lavoro per ensemble, conferma l’abilità della musicista britannica nel definire processi taglienti – avrei usato lo stesso aggettivo anche se non si fosse trattato di cicatrici nel titolo, a scanso di equivoci – di relazione tra i solisti e l’insieme, una serie di segni di presenza che richiedono attenzione, che si fanno memoria vibrante.
Nel già collaudato To And Fro, il dialogo tra violino e oboe, collocati uno di fronte all’altro ai due estremi laterali del palcoscenico, trova in Maximilian Haft e in una camaleontica Beatrice Laplante due interpreti in grado di estrarre dal proprio strumento suoni che si chiamano a vicenda. Un buon lavoro.
In Biotope, Demierre mette in relazione il proprio trio d’improvvisazione (con fisarmonica e tromba oltre al suo pianoforte) con l’ensemble, una modalità certo non nuova, ma che attivando dinamiche sempre differenti tra i processi determinati e le situazioni estemporanee ha sempre una sua attualità.
La mezz’ora scarsa di costruzione di un ecosistema sonoro alterna momenti di inclusività che funzionano bene a altri più noiosi che prevedibili, ma occhi o orecchie sono catalizzati principalmente da quel fenomeno di Axel Dörner, che si conferma sperimentatore formidabile con la tromba a pistoni e coulisse. Alcuni suoni, soffi e rintocchi che sono usciti dal suo strumento valgono da soli la serata.
Si torna di nuovo indietro nel tempo, sebbene con un lavoro più recente (anno di grazia 1997), nella serata al Teatro Goldoni dedicata all’allestimento di I Cenci di Giorgio Battistelli da parte del Conservatorio della Svizzera Italiana (ne aveva già scritto sempre il prode Nardelli un anno e mezzo fa) con la regia di Carmelo Rifici.
È un lavoro che conferma la sua solidità, offrendo alla scrittura di Battistelli la possibilità di concretizzare pulsioni e emozioni in una sorta di espressionismo sublimato e sempre cangiante.
Il lavoro sulla scena dialoga con la musica e con il video (a volte con l’ausilio di una camera a mano che consente delle soggettive come nell’Hamlet di Ostermeier), forte di una recitazione asciutta e, nel bellissimo finale, di un momento di danza molto forte e coinvolgente incarnato dalla bravissima Marta Ciappina.
Il centenario della nascita di Bruno Maderna viene celebrato con la presentazione del libro in uscita per LIM e curato da Mario Baroni e Rossana Dalmonte (non siamo riusciti a presenziare alla presentazione, “officiata” dal nostro Alberto Massarotto) e con un concerto/documentario alla struttura originale.
Sette canzoni per Bruno (nel titolo è evidente il richiamo, bello, al maestro Malipiero) ripercorre la vita del compositore veneziano attraverso il racconto – affidato a un sempre efficace Luca Scarlini – i video di repertorio e un lavoro di composizione in cui lavori di giovani autori del Collettivo In.Nova Fert si mescolano a frammenti di materiali maderniani, di cui si appropriano per restituire la caleidoscopica ricchezza della sua pratica musicale.
Il FontanaMIX Ensemble, guidato da Francesco LaLicata e con la voce di Valentina Coladonato a fare gli onori del canto, ci accompagna tra Gabrieli e Paul Verlaine, il Satyricon e un buffo rap riepilogativo, in un progetto che sconta più di un’ingenuità e che rischia di offrire una sorta di foto un po’ mossa e caotica di quella che è stata invece la forza quasi bulimica della versatilità di Maderna.
In attesa che la seconda parte del Festival, che si chiuderà con un concerto dell’Ex Novo Ensemble giustamente dedicato al recentemente scomparso Mario Messinis, regali qualche novità più elettrizzante, ci allontaniamo nella notte veneziana con il sospetto che si sia preso troppo alla lettera l’avviso che compare su molti specchietti retrovisori: “gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto non appaiano”.
Se è vero che i Maestri nello specchio retrovisore (Nono, Maderna, Stockhausen, Donatoni, Boulez tra quelli che hanno fatto compagnia a Beethoven nei primi giorni di Biennale) sono sempre vicini a noi – più di quanto a qualcuno non appaiano – e il confronto con la loro arte è generatore di relazioni e prospettive sempre nuove, si ha un po’ la sensazione che invece di accelerare, qui si sia avuta la tentazione di rallentare per farsi sorpassare e poi guidare sereni senza scossoni o sorprese.
In un mondo che scorre a più corsie, in realtà, con monopattini elettrici che sfrecciano colorati verso altri linguaggi e su cui montano altre possibili comunità di spettatori, non siamo certi che questa condotta, per quanto saggia nella sua prudenza, sia proprio quella più visionaria.
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