Jazz Is Dead 2023, strani pubblici e riti del rumore
Boris, Moin e altre distorsioni: il punto su Jazz Is Dead 2023
Un po’ di anni fa, quando la Juventus stava avviando il ciclo più vincente della sua storia, “Maneskin” suonava come il nome di un mobile Ikea e il giornale della musica era ancora un oggetto cartaceo, in redazione si era cominciato a riflettere su come costruire un nuovo giornale.
Fino a quel momento il gdm era stato un serioso foglio di classica, e voleva aprirsi ad altri generi: il pop più colto e all’avanguardia, le musiche del mondo, il jazz di ricerca, la contemporanea colta…
– Leggi anche: Jazz Is Dead, festival vero tendente al nero
L’idea alla base del dibattito era che esistesse – o che sarebbe esistito di lì a pochi anni – un ascoltatore-tipo interessato a tutte queste musiche contemporaneamente; o meglio, interessato a quella vasta area di intersezione che stava fra queste musiche, e che ad ascoltarla con orecchie ben aperte e senza preconcetti rivelava un chiaro sentire comune, al di là delle etichette che usiamo per parlare di musica. Solo, non era ben chiaro dove fosse, quell’ascoltatore tipo.
A distanza di anni mi è tornato in mente quel dibattito, e nel pieno di Jazz Is Dead – sarà la birra, o il caldo indonesiano della sala Club del Bunker di Torino, sarà il claim dell’edizione 2023, Chi sei?, scritto sui manifesti in giro – ho creduto di avvistare quell’ascoltatore.
O meglio: ne ho avvistati diversi. Astraendosi dal contesto, il pubblico di Jazz Is Dead (anche quest’anno numerosissimo, con gli spazi al limite della capienza e la gente ammassata fuori sotto il diluvio) assomiglia per molti versi alla folla che si incontra su un tram più che al pubblico di un festival.
Ci sono giovani tatuati con la camicia aperta e i baffi impomatati, ragazze entusiaste con brillantini un po’ ovunque, attempati signori con t-shirt di oscuri jazz festival est-europei, metallari progressivi, qualche famiglia con bambini al seguito, feticisti del vinile in sovrappeso con la borsa di Rough Trade di ordinanza… Il tipo di gente che potresti trovare a un concerto dei Wilco insieme al tipo di gente che potresti trovare a un concerto degli Opeth, insieme al tipo di gente che potresti trovare a un concerto dei Sault, ma anche quelli che incontravi vent’anni fa nelle serate di elettronica ai Murazzi (ora con vent’anni di più), o che si incontrerebbero oggi nelle serate di elettronica – ma verso le 4 del mattino, quando i miei coetanei di solito sono già a letto da sei ore.
Ci sono poi (ed è uno dei segni migliori di salute di un festival) moltissimi musicisti: quelli che hanno suonato prima o che suoneranno dopo, ma anche quelli della scena locale, che vengono a Jazz Is Dead certi di poter ascoltare qualcosa che non conoscono, ma che probabilmente gli interesserà. La stessa ragione per cui ci vengo io, in effetti.
La linea della direzione artistica – saldamente in mano ad Alessandro Gambo, con Giorgia Mortara nel ruolo di presidente, ufficio stampa e factotum dietro le quinte – è oramai chiara: si cerca il “jazz” come principio creativo, spinta di originalità, anche in musiche che con il jazz canonicamente inteso hanno poco a che fare. Il minimo comun denominatore delle proposte – forse il quid che rende Jazz Is Dead davvero unico – è però la sua predisposizione al nero (ne parlavamo l’anno scorso), alle musiche scure e apocalittiche, al rumore, al ritmo, al ballo…
Jazz Is Dead tende in effetti a estrarre questo lato anche nel tipo di proposta che è più facile trovare nei “veri” festival jazz, quelli con la gente seduta. Così ad esempio dallo stupefacente trio del chitarrista e banjoista di base a New York Brandon Seabrook. La batteria di Gerald Cleaver e soprattutto il diddley bow di Cooper-Moore (un monocordo che il musicista, nome storico della scena newyorkese degli anni settanta, percuote con due bacchette) finiscono così a spingere tutto nelle frequenze più basse, facendo ballare il pubblico anche sulle cellule ritmiche sghembe di Seabrook.
Effettivamente, un dato che emerge osservando il pubblico di Jazz Is Dead durante molte performance è che lo headbanging non solo non è passato di moda, ma si può oggi applicare a generi molto diversi: a combo jazz così come all’indie rock turco dei Lalalar, tra le scoperte migliori di quest’edizione. Il trio di Istanbul mette insieme un’elettronica da DJ set tardi novanta (si va dalla cassa dritta a momenti quasi Prodigy) con la chitarra acida e tutta aperta sugli acuti del migliore post punk anni ottanta. Rispetto allo psych-rock turco che si ascolta di norma nei festival di world music, e che riprende più o meno pedestremente i suoni vintage dell’Anadolu rock (il rock psichedelico turco degli anni sessanta) qui siamo a una musica di venti, trenta, quarant’anni dopo – tutta frullata insieme e suonata senza farsi troppe domande.
Atmosfere simili – il post punk è evidentemente in pieno risorgimento – vengono fuori anche dal set dei Moin, ovvero il progetto della batterista Valentina Magaletti con i Raime (ne avevamo parlato diffusamente qui), fra i più potenti fra quelli avvistati quest’anno e degna apertura del vero rito di chiusura di Jazz Is Dead 2023, la più classica delle catarsi, affidata ai veterani Boris, in tour europeo per i loro trent’anni di attività.
Se l’inizio del concerto del trio (sul palco in quartetto) ce li fa sembrare in questa versione una specie di versione nipponica dei Motörhead (Sakamotörhead è la battuta che gira dietro al palco), la performance muta poco a poco in una sorta di celebrazione del suono più estremo, andando nella direzione dell'altra anima dei Boris – quella francamente più interessante: drone, psichedelia, noise, prog-rock, math rock… c’è dentro un po’ di tutto, e ad alto volume e alla massima velocità tutto si scioglie insieme.
La prima fila preme sulle transenne e Atsuo – il batterista del gruppo, passato in pianta stabile al ruolo di cantante e frontman – mette in scena il suo repertorio di urla e rumori, passa il microfono al pubblico, si issa sulla transenna. Il rito termina con lo stage diving d’obbligo: bianco vestito, con una lunga veste di lino sopra una mesh marina e le zeppe, trasportato dal pubblico nel nero della sala – immobile e con le braccia allargate – sembra uno strano Cristo giapponese, estremo e queer.
La giusta fine di un festival ugualmente, a suo modo, estremo, in grado di mettere ogni volta in scena, e ogni volta in dubbio, la nostra identità di ascoltatori e quella delle musiche che amiamo.
L’appuntamento è per gli spin off finali: il 3 giugno al Cinema Massimo gli Irreversible Entanglements (qui li avevamo recensiti) chiamati a sonorizzare le immagini torinesi del fotografo Vittorio Zumaglino; e la violoncellista Mabe Fratti al Planetario di Pino Torinese (sold out, è stato aggiunto un secondo set).
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