Janáček e l’elaborazione elettronica, mondi differenti da scoprire al Romaeuropa Festival
Dal teatro di Ivo van Hove, basato su un ciclo di canti del compositore ceco, all’ipnotico spettacolo di suoni manipolati dalla giovane Caterina Barbieri
Non c’è da stupirsi che il Romaeuropa Festival riesca a muoversi con disinvoltura tra proposte artistiche estremamente variegate, visto che il tema di questa edizione – Between words– stimola ancor più a seguire un “percorso ragionato e sensibile, dove le contraddizioni sono una sfida”, per usare le parole del direttore artistico Fabrizio Grifasi. Ecco dunque, nella stessa giornata e in orari opportunamente sfalzati, due appuntamenti dalle premesse completamente diverse ma in fondo accomunati dal desiderio di raccontare attraverso la musica cosa il fluire delle emozioni provoca nelle profondità dell’animo umano. A cominciare dallo spettacolo realizzato da Ivo van Hove – in prima nazionale al Teatro Argentina – sopra il ciclo Zápisník zmizelého (The Diary of One Who Disappeared) di Leoš Janáček, scritto dal musicista ceco tra il 1917 e il 1919 sull’onda della intensa passione amorosa provata per la giovane Kamila Stösslová. Un rapporto rimasto necessariamente platonico, visto che entrambi erano già sposati, ma di estrema importanza per la vena creativa del compositore, che dopo il successo viennese dell’opera Jenůfaaveva incrementato la sua fama internazionale. Il regista olandese è partito dai ventidue canti che compongono il ciclo, ispirato a sua volta a un poema che narra di un ragazzo innamorato di una giovane zingara, integrandolo con i tre brani appositamente scritti dalla compositrice Annelies Van Parys e soprattutto con degli estratti da quanto lasciato scritto dallo stesso Janáček nei suoi diari, oltre settecento lettere testimonianti il tormento di un sentimento proibito ma sentito fortemente fino ai suoi ultimi giorni di vita. Sulla scena è stata così ricostruita una seconda storia accanto a quella narrata dal ciclo di canzoni, ottimamente interpretate dal tenore Ed Lyon, per lasciare che fosse lo stesso compositore, raffigurato nei suoi ultimi anni di vita, a narrare e rievocare la propria passione per Kamila. Con un perfetto effetto prospettico, quest’ultima è diventata contemporaneamente anche la zingara Zefka, figura nella quale dunque si sommava la doppia passione proveniente dalla vita reale e dall’opera d’arte.
Tutt’altra scena (la sede stavolta era quella del Mattatoio, per la rassegna Digitalive) per ascoltare Caterina Barbieri rimodulare dal vivo il suo ultimo album Patterns of Consciousness. Elementi prodotti per mezzo di sintetizzatori analogici che l’artista ha poi manipolato, trasformato, combinato attraverso un’attenta regia dal vivo, per proporre al giovane pubblico presente un’ampia gamma di spazi acustici, veri e propri agglomerati sonori da cui farsi completamente avvolgere. Tra le più giovani esponenti della nuova musica elettronica italiana, Caterina Barbieri ha adoperato questa complessa stimolazione elettronica per creare una sorta di mutevole effetto ipnotico nell’ascoltatore, raggiunto il quale fosse poi possibile calarsi nei meandri più nascosti della mente, per confrontarsi con sensazioni ora dolci, ora irruente, ora sconosciute, passando attraverso tutte le stratificazioni che separano la nostra parte cosciente dall’inconscio.
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