Incroci musicali in Repubblica Ceca
Reportage dal Czech Music Crossroads 2018 a Ostrava: una finestra sulla world music dell'Est Europa
Se da qualche anno band dell’est Europa cominciano a comparire con maggiore frequenza su palchi di festival internazionali è probabilmente anche merito del Czech Music Crossroads, che ogni anno porta a Ostrava – la terza città della Repubblica Ceca per dimensioni, vicino al confine con la Polonia e la Slovacchia – operatori internazionali, giornalisti e direttori artistici da tutto il mondo. Il Czech Music Crossroads è di fatto l’antipasto del Colours of Ostrava, uno dei principali festival di quest’area (di cui scriverò nei prossimi giorni). È uno showcase festival dove vige un piacevole clima informale: si chiacchiera, ci si scambiano biglietti da visita e cd, si ascoltano gli interventi della conferenza (curata dal giornalista Petr Dorůžka) e le band selezionate dal comitato artistico. Per chi si occupa di world music, è un’occasione unica per ascoltare dal vivo la musica di un’area geografica e culturale che spesso è poco considerata: le band vengono da Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia. A queste si aggiunge in ogni edizione un paese ospite – quest’anno la Serbia –, e uno spazio speciale è riservato ai prodotti musicali della “diaspora ceca”: musicisti di origine ceca che lavorano e vivono all’estero, ma che in molti casi mantengono un contatto più o meno forte con le loro radici culturali.
La cosa migliore sentita, per distacco, è il progetto Dálava della cantante ed etnomusicologa di base a Vancouver Julia Ulehla, con il marito e chitarrista Aram Bajakian: una rilettura in chiave folk-jazz (molto riduttiva come definizione, ma ne parlo più diffusamente qui) di melodie morave trascritte dal bisnonno di Julia, Vladimir Ulehla. «Il lavoro d’archivio – ha spiegato la cantante durante la conferenza – è di per sé un atto creativo», e durante il concerto si scusa se «qualcuno preferisce la musica tradizionale, perché questa non lo è». Le canzoni vengono sottoposte a trattamenti elettrici, con la chitarra protagonista, o diventano quasi cameristiche con contrabbasso e violoncello, con improvvisi strappi free jazz. Ulehla corre per la sala, si accascia sul palco; poi si ferma e legge dal libro del bisnonno, racconta storie d’amore del passato, trasfigurazioni di fanciulle che diventano animali (The Book of Transfigurations è il titolo del disco), pezzi di radici che hanno dato frutti nuovi e insperati. Memorabile.
Altrettanto interessante è la proposta degli (impronunciabili) polacchi Krzikopa: una specie di folk progressivo tiratissimo, imperniato intorno alla voce delle due cantanti, al violino, alla fisarmonica e all’elettronica, un po’ in stile Big Beat inglese. Vengono dalla Slesia, pochi chilometri oltre il confine ceco-polacco, e hanno rappresentato (musicalmente parlando) la Polonia agli ultimi giochi olimpici. Li vedrò ancora qualche giorno dopo al Festival: hanno un bellissimo spettacolo, la gente balla e le melodie si attaccano in testa (per quanto impronunciabili siano i testi, viene anche da canticchiarli).
Altro bellissimo progetto, in linea con quell’idea di suono “world”, è quello dei cechi Zabelov Group, duo fisarmonica-batteria (ma il percussionista suona anche la tromba) annegato nell’elettronica e nei loop. Musica da trip, che ora va verso il jazz elettrico, ora vira verso il post-rock più tirato e il dub.
Ottiene grande successo di pubblico – confermato dalla vittoria del Czech Music Crossroads Award, attribuito dagli operatori – Lenka Dusilová. Cantante e chitarrista di area rock, nome piuttosto noto in Repubblica Ceca, a Ostrava si presenta in un intimo set solitario con loop station e pad elettronico: un concerto intenso, con belle armonie di chitarra e belle melodie anche se un po’ statico (siede dietro un tavolo, in una posa un po’ impiegatizia). E, soprattutto, in questo caso, al pubblico non madrelingua difetta la comprensione del testo…
Il livello di energia si rialza subito però con i Vrelo, ospiti dalla serbia: bizzarra formazione, con cinque donne in abiti tradizionali (non sono esperto di moda serba ma direi rivisitati in una direzione sexy-burlesque – comunque abbastanza castigati per gli standard balcanici), un chitarrista e un percussionista (pure loro in abiti tipici): fanno quella che non saprei definire se non come una “party music” tamarra ed elettronica, con balletti, sketch e grande energia… I testi, ragionevolmente, dovrebbero rinforzare il tutto con soggetti salaci e battute – ma anche qui, difetta la comprensione. Il pubblico ride e gradisce, per quanto la pioggia abbia costretto a spostare gli showcase all’interno, in un piccolo auditorium: di certo, è uno show da piazza, da festa.
In ambito più acustico, invece, bellissimo il set degli ungheresi Babra, che rileggono la musica delle minoranze slave di Ungheria con un combo di tambura (o tamburica), una delle molte varianti locali sul tema del mandolino (anche se la tecnica di esecuzione ricorda forse di più quella dell’oud); come il mandolino, ci sono tamburica tenore, soprano, e un contrabbasso pure suonato con il plettro, dalla cantante. Tra tempi dispari e belle melodie, un progetto affascinante e brillante, “trad” nell’ispirazione ma fresco nella resa.
Sempre dall’Ungheria vengono anche i Tázló, energico gruppo dedito al repertorio della minoranza csángó della Moldavia rumena, cattolici di lingua ungherese, con uno scacciapensieri che ha il tiro di un basso elettrico, tamburo, violino e flauto koboz.
Più in generale, si ascolta davvero un po’ di tutto, tutto di buon livello: dall’etnojazz basato sul cymbalon come strumento solista – è il caso dei Bashavel, e del Ľubomír Gašpar Cimbal Project, che chiude la seconda serata con i pirotecnici soli del leader (entrambi i gruppi vengono dalla Slovacchia) – a progetti più indie rock, pur con impiego di armonie vocali che suonano molto “folk”, come nel caso dei polacchi Fifidroki. Fino a progetti più “globalisti” come ispirazione: una tendenza comune a diverse band, pur nella varietà di stili e ispirazioni, sembra proprio essere quella a cercare l’effetto strumentale “esotico”, inserendo a forza percussioni africane o indiane o l’immancabile cajòn (che, lo si sostiene da tempo, dovrebbe essere vietato da una legge se usato succedaneo “etnico” della batteria).
In questo i paesi dell’Est (almeno, per quanto si possa capire di una scena assistendo a una dozzina di showcase) si allineano a quanto avviene in Italia e in altre parti d’Europa: capita così che a volte si spinga molto, forse troppo, sul tasto del mix “global fusion”, forse rispondendo a richieste più o meno implicite del circuito della world music. È il caso dei cechi Tellemarkk, intriganti con clarinetto basso, violoncello elettronica e tabla, o degli ottimi KarpaTon, solido gruppo slovacco con un bellissimo suono acustico, incentrato intorno ai molti strumenti del leader (dalla fujara, il flauto armonico tipico di quell’area, al dulcimer, alla ghironda)… ma che quando si viene alle percussioni casca, ancora, su cajòn e darabuka; o ancora dei polacchi Čači Vorba, che interpretano repertorio zingaro est-europeo con grande raffinatezza, pur con qualche scelta non sempre centrata (il bouzouki con il flanger, o ancora l’immancabile djembé).
Per chiudere, un caso particolare: quello di Meshi-Guessous Majda Mária, ungherese-marocchina diplomata alla Liszt Academy di Budapest, che suona il bağlama turco mescolando il tutto con la musica indiana. E, incredibilmente, il mix funziona, affascina e non suona per nullo “esotico”. Si tratta solo, in fondo, di saper trovare dei buoni compromessi tra i diversi strumenti, tra le diverse voci, tra i diversi stili. È così, d’altra parte, che funziona la musica (e non solo la musica).
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