Il vitale eclettismo di Ravenna Festival
L’avvio della XXXIV edizione della rassegna con Laurie Anderson, il duo Argerich-Maisky, un omaggio a Zappa e uno a Madre Terra
Se la XXXIV edizione del Ravenna Festival porta il titolo “Le città invisibili” – omaggio a Calvino nell’anno del centenario della sua nascita – i primi giorni del cartellone 2023 hanno restituito in maniera visibilissima l’intensa vivacità di un programma che conferma – anche reagendo a contingenze non proprio favorevoli, come ricorderemo più avanti – la capacità di miscelare generi e stili dell’espressione musicale e artistica del nostro tempo attraverso un segno consapevole e originale.
Caratteri, questi, che abbiamo potuto registrare seguendo – tra il 7 e il 10 giugno – i primi appuntamenti del festival ravennate, che hanno proposto, dopo la doppia inaugurazione simbolicamente incarnata da Laurie Anderson da un lato e dal duo Argerich-Maisky dall’altro, una significativa rilettura dell’album Yellow Shark di Frank Zappa e una altrettanto indicativa riflessione dedicata all’emergenza climatica affrontata nell’originale spettacolo Gaia.
La classe di Laurie Anderson, tra elettronica, urla liberatorie e Tai Chi
Che si potesse trattare di uno spettacolo interessante, se non davvero speciale, c’era da immaginarselo, e le aspettative in questo senso non sono state disattese. Quella offerta da Laurie Anderson in occasione della prima data inaugurale della XXXIV edizione del Ravenna Festival è stata una performance tesa, serrata e intensa, che ha saputo coinvolgere il numeroso pubblico che è confluito al Pala De André per questa unica data italiana della tournée internazionale Let X = X.
Diretto riferimento allo storico album Big Science nel quale è contenuto, il brano che offre il titolo a questo tour ha rappresentato anche una delle interpretazioni più pregnanti della serata, assieme a un altro brano ormai classico accolto in quel disco come “O Superman”, titolo-icona da un lato del successo – anche commerciale – raggiunto dall’artista statunitense e, dall’altro, della personale poetica – nutrita di temi sociologici, sperimentazione musicale, indagine elettronica e gestualità pop – che intride l’arte della stessa Anderson. In questo quadro, ricordando l’immagine di copertina dell’album del 1982, possiamo rievocare quella vaga gestualità robotica che oggi potremmo idealmente ritrovare nei gesti di chi indossa – invece degli occhiali della foto – uno dei visori per la realtà virtuale (o amentata, se preferite questa variante), attualmente tanto discussi quanto lo è l’intelligenza artificiale. Ed è proprio all’A.I. che, per sua stessa ammissione, l’artista attinge fin dalle pioneristiche esperienze degli anni Ottanta, arrivando oggi ad uno sviluppo creativo che ne fa uno dei tanti strumenti – o linguaggi – espressivi da lei utilizzati, al di là di ogni problematica di carattere etico o estetico.
Un approccio che ha permesso alla Anderson di plasmare anche in questa occasione uno spettacolo denso ed efficace – e forse addirittura troppo perfetto nel suo immanente equilibrio – disegnato attraverso un tracciato che ha attraversato in diverse direzioni le differenti stagioni creative dell’artista, toccando – tra le altre – le atmosfere generate da brani come “Only an Expert”, tratta dall’album Homeland del 2010, o rievocando le metamorfosi di brani come “It's Not The Bullet That Kills You - It's The Hole”, composizione del 1977 originariamente registrata per un’installazione alla Holly Solomon Gallery di New York. Variegate videoproiezioni, richiami ai pattern di sapore minimalista che hanno accompagnato sia tutta la sua produzione sia le altre variegate collaborazioni – ricordiamo, per esempio, il suo brano “Forgetting” contenuto nell’album Songs From Liquid Days (1986) di Philip Glass – fino al caratteristico uso del vocoder e dell’harmonizer.
Tutti elementi che hanno concorso a tratteggiare uno spettacolo nel complesso trascinante, da un lato impreziosito dall’omaggio a Lou Reed rappresentato da “The Lake” e al James Brown di “Get on the Good Foot”, e dall’altro animato da due momenti di coinvolgimento diretto del pubblico: prima con l’invito ad un urlo liberatorio-catartico – in riferimento al commento di Yoko Ono all’elezione di Trump nel 2016 – e alla fine con una estemporanea condivisione collettiva di posture Tai Chi.
Una performance coinvolgente, dunque, alla quale hanno offerto un contributo determinante i bravi componenti dei Sexmob, formazione in impronta jazz guidata da Steven Bernstein (tromba) e formata da Briggan Kraus (sassofono), Tony Scherr (basso), Kenny Wollesen (batteria) e Doug Weiselman (clarinetti), che accompagna la Anderson in questo tour.
Se l’eleganza si tiene per mano: Martha Argerich e Mischa Maisky
Il giorno successivo, giovedì 8 giugno, è stata la volta della seconda inaugurazione, quella dedicata al repertorio “classico”, con protagonisti il pianoforte di Martha Argerich e il violoncello di Mischa Maisky, impegnati a rinnovare un sodalizio che, se dobbiamo scegliere una data ufficiale, possiamo far iniziare simbolicamente da quella prima incisione realizzata per l’etichetta Deutsche Grammophon e pubblicata nel 1985 dove i due musicisti affrontavano un repertorio bachiano. Da quel momento i due artisti non si sono mai persi di vista, tornando a collaborare a più riprese e coltivando un’amicizia umana e artistica che è emersa anche in questa occasione. Le intese espressive, gli ammiccamenti impercettibili, gli scambi di sguardi fluidi e, a tratti, sornioni, tutti elementi che sono confluiti in un’intesa restituita plasticamente nel loro salutare il folto pubblico presente al Pala De André mano nella mano.
Un gesto, al tempo stesso, tenero e diretto, che abbiamo potuto ritrovare idealmente nel naturale e ispirato equilibrio con il quale Martha Argerich e Mischa Maisky hanno restituito i diversi caratteri di un programma cameristico denso e raffinato – forse a tratti segnato dall’acustica un poco dispersiva del grande spazio che ha ospitato il concerto – avviato dalla pregnante eleganza con la quale ha preso forma in apertura di serata la Sonata per violoncello e pianoforte in sol minore op. 5 n. 2 di Ludwig van Beethoven, una pagina il cui segno classico ravvivato dalla sciolta freschezza inventiva del compositore all’epoca ventiseienne ha trovato qui una lettura particolarmente vitale. Un’affinità, quella tra i due musicisti, che ha poi innervato le sinuose atmosfere della Sonata n. 1 per violoncello e pianoforte in re minore di Claude Debussy, le cui emblematiche peregrinazioni armoniche hanno potuto trovare nell’intreccio tra un pianoforte dal segno timbrico vellutato e un violoncello dal tratteggio caldo e denso un equilibrio dalla rara efficacia. Dal segno al tempo stesso più morbido e brillante, infine, si è rivelata la Sonata per violoncello e pianoforte in sol minore op. 65 di Frédéric Chopin, pagina che ha chiuso il programma con una sensibilità espressiva che ha rapito il pubblico presente, il quale ha salutato con entusiasmo i due artisti che si sono accomiatati con un generoso brano fuori programma.
Zappa, quando l'irriverenza diventa un classico
Venerdì 9 giugno, sempre al Pala De André, è andata in scena la ripresa di The Yellow Shark, lavoro commissionato a Frank Zappa nel 1992 l’Ensemble Modern di Francoforte e confluito l’anno successivo in un album divenuto ormai un classico del repertorio dedicato dall’artista di Baltimora a formazioni di riferimento del panorama colto-contemporaneo come, per citare un altro esempio oltre lo stesso Ensemble Modern, l’Ensemble Intercontemporain di Pierre Boulez, protagonista di The Perfect Stranger, un lavoro discografico ormai altrettanto classico pubblicato nel 1984.
A riprendere quindi a distanza di trent’anni la suite The Yellow Shark erano impegnati in questa occasione i musicisti dell’ensemble PMCE – Parco della Musica Contemporanea Ensemble – Fondazione Musica per Roma, diretti da Tonino Battista e completati dagli inserti recitati di Marcello Nardis. Al di là dei tratteggi giocosi, irriverenti e a tratti surreali che costellano e, se vogliamo, caratterizzano i diciotto brani – più una “Intro” – di questo lavoro, la rilettura offerta dalla compagine del PMCE ci ha permesso di riconoscere il carattere vitale ed estremamente interessante di una tessitura compositiva che Zappa ha elaborato con quel suo gusto decisamente originale, capace di coniugare differenti stilemi linguistici – dal pop alla serialità – con tratto consapevole e personale, nutrito di solida preparazione tecnica, obliqua vena creativa, istintiva leggerezza e concreto pragmatismo tipicamente statunitense.
Caratteristiche, queste, ribadite dall’estrema varietà espressiva restituita dai diversi brani, passando dalle iniziali “Dog Breath Variations” e “Uncle Meat” – in cui temi originali erano apparsi già nell’album Uncle Meat del 1968 – alla complessa tessitura pianistica di “Ruth is sleeping”, tra le esecuzioni più coinvolgenti della serata con i suoi fitti intrecci ritmici e polifonici, generati in origine dalle prime esperienze del compositore con il Synclavier maturate tra gli anni 1982-1983 e in seguito rielaborate e trasposte per pianoforte. Tra gli altri momenti più significativi della serata possiamo ricordare “Questi cazzi di piccione”, con i colpi degli archi generati casualmente durante le prove e che il compositore ha deciso di mantenere, e “Welcome to the United States”, ironica lettura commentata del modulo doganale da compilare per entrare negli USA che restituisce in maniera emblematica l’uso dell’improvvisazione nelle composizioni di Zappa. Un’operazione sicuramente interessante, insomma, che ha raccolto alla fine gli applausi del pubblico presente.
Gaia, rito ecologico collettivo (o dell'estinzione prossima ventura)
Ultimo spettacolo che abbiamo seguito, in occasione della sua “prima” di sabato 10 giugno, durante la nostra permanenza a Ravenna, Gaia ha portato in scena al Teatro Alighieri una riflessione sull’emergenza climatica, proprio nei giorni in cui il territorio della Romagna inizia a rialzarsi dopo la grave alluvione che l’ha colpita. Una contingenza drammaticamente fortuita, certo, ma che – oltre ad aver toccato anche un festival che meritoriamente ribadisce la sua attività e il suo impegno quale elemento, tra i tanti, di attrazione per questo territorio – avvalora la necessità di una consapevolezza sempre più profonda e che è divenuta idealmente ancora più urgente quando, nella sequenza delle frasi recitate e proiettate sulle pareti del teatro nel corso dello spettacolo, è emersa – appunto – la parola “alluvioni”.
In questo progetto firmato ErosAntEros, con la drammaturgia di Agata Tomšic – protagonista anche in scena – e regia e music design di Davide Sacco, è stato plasmato – tra ricostruzioni di estinzioni precedenti quale quella dei dinosauri, rievocazioni di conflitti planetari e disastri climatici sempre più frequenti – una sorta di rito collettivo celebrato dalla stessa Tomšic al centro della scena quale simbolica Madre Terra, e coadiuvato dagli interventi di un gruppo di attivisti climatici. Questi – prima travestiti da dinosauri, poi protagonisti della rappresentazione di una deriva consumistica destinata a esasperare l’inquinamento arrivando a una nuova estinzione – hanno abitato lo spazio del teatro declinando le differenti emergenze che affliggono il pianeta. Tra sequenze sonore, inserti di musica elettronica, proiezioni di immagini e luci laser, lo spettacolo si è dispiegato attraverso diversi passaggi, alcuni più efficaci altri dall’impronta un poco ingenua, che hanno comunque avuto il merito di veicolare in maniera concreta e creativamente originale un messaggio sempre più urgente e necessario, accolto e seguito con la giusta attenzione da parte del pubblico che abitava i palchi del teatro e che ha salutato alla fine con convinti applausi tutti gli artisti impegnati.
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