Uno spettacolo come la “Norma” belliniana che ha aperto la breve stagione lirica autunnale del Teatro Verdi di Padova tiene viva la sana tradizione della cosiddetta provincia teatrale italiana, coi suoi pregi e i suoi limiti: sala a misura di voce, allestimento fedele al libretto, tagli di tradizione alla partitura, cast senza divi ma funzionale. Se poi sul podio sale un direttore come Tiziano Severini, che il repertorio italiano ottocentesco ce l’ha nel DNA, l’esito sul piano stilistico è assicurato, al di là di qualche sfasatura fra buca e palcoscenico, dovuta evidentemente a scarsa possibilità di prove. La sua è una “Norma” svelta, leggera, priva di certi inscurimenti e appesantimenti che ne hanno caratterizzato la storia esecutiva novecentesca, complice anche l’Orchestra di Padova e del Veneto, di vocazione più classica che romantica, propensa a far emergere le singole unità strumentali piuttosto che fondersi in un amalgama omogeneo.
Sul palcoscenico cantanti freschi, ben tre dei quali (Adalgisa, Pollione e Oroveso) vincitori di recenti edizioni del concorso padovano intitolato a Iris Adami Corradetti: bel timbro mezzosopranile e bella presenza scenica per Annalisa Stroppa, tonante e irruente il basso Cristian Saitta, voce tenorile preziosissima quella di Luciano Ganci, che restituisce finalmente un Pollione belcantista, amoroso più che eroico, senza le forzature che la parte troppo spesso subisce. Norma è Saioa Hernández, che si presenta come allieva di Montserrat Caballé ma che cerca in Maria Callas il modello timbrico per l’ambito centro-grave della voce.
L’allestimento del visual director Paolo Micciché ripropone un suggestivo esempio di ambientazione scenografica proiettata su fondali neutri, continuamente cangiante e scorrevole, che avvolge e talvolta fin copre i cantanti, lasciati però liberi di un’interpretazione gestuale di convenzione.
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento