Il trionfo di Kirill Petrenko
A Roma l’unica tappa italiana della tournée dei Berliner Philharmoniker e del loro direttore principale
I Berliner Philharmoniker sono tornati a Roma per un concerto all’Accademia di Santa Cecilia - in collaborazione con l’Ambasciata di Germania e RomaEuropa Festival - dopo diciassette anni: un avvenimento che, nonostante i prezzi più che triplicati, ha esaurito la vastissima sala Santa Cecilia per la prima volta dopo la fine del lockdown. Erano venuti l’ultima volta nel 2004 con Simon Rattle, ma allora la volta precedente era stata appena tre anni prima, perché nel 2001 c’era stato lo storico ciclo completo delle Sinfonie e dei Concerti per pianoforte di Beethoven con Claudio Abbado sul podio. Speriamo che abbiano imparato nuovamente la via di Roma, anche perché il loro direttore principale e direttore artistico Kirill Petrenko evidentemente a Roma si trova bene, se questa è la terza volta che vi torna in meno di un anno. E sicuramente il pubblico romano se ne è innamorato.
Prima di Roma questo stesso programma era già stato eseguito a Berlino e poi portato in tournée in Danimarca, Svezia e Germania, quindi l’orchestra l’aveva perfettamente assimilato ma la perfezione non dipendeva da questo, è connaturata ai Berliner. Petrenko arricchisce questa perfezione con la sua personalità, anzi con le sue personalità, perché è un direttore camaleontico, che può cambiare radicalmente a seconda della musica che ha sul leggio: precedentemente aveva diretto a Roma un Rheingold deprivato della sua aura nibelungica e smitizzato, gettando alle ortiche la vecchia tradizione interpretativa, mentre per la Nona di Beethoven si era riallacciato proprio all’eredità dei grandi direttori tedeschi di un tempo. Nel caso della Sinfonia n. 3 “Scozzese” di Mendelssohn, posta ad apertura del concerto, il direttore austro-russo non accetta né rifiuta la tradizione interpretativa, semplicemente va per la sua strada, che talvolta interseca quella tradizionale, talvolta se ne allontana.
L’introduzione non è così brumosa come vorrebbe la tradizione. Il tema dei violini ha uno slancio e una cantabilità più mediterranee che nordiche e la nebbia e la malinconia arrivano soltanto con la frase dei legni, che poi sfocia nell’Allegro un poco agitato, ma presto quelle atmosfere romantiche si schiariscono, perché Petrenko mette in luce soprattutto l’eleganza e la leggerezza dell’orchestrazione e la rifinita costruzione formale. E, come un restauratore che gratta via secoli di fumo e polvere depositatisi su un dipinto, fa scoprire anche un dettaglio (che poi non è proprio un dettaglio) che in genere resta nascosto, una tempesta in piena regola che scoppia poco prima della coda, con il fischio del vento e il rombo dei tuoni realizzati rispettivamente dai flauti e dai timpani, more solito: non una spaventosa tempesta nordica ma un acquerello come quelli che il giovane Mendelssohn si dilettava a dipingere. La natura si placa, torna il sereno e si passa senza interruzione a uno Scherzo lieve e aereo, che nelle mani di Petrenko diventa un chiarissimo antecedente di quello magico del Sogno d’una notte di mezza estate, composto subito dopo.
Ma Petrenko cambia decisamente tono nei due movimenti seguenti, un Adagio romanticamente lirico e intenso e un Allegro travolgente, preso a un tempo ancora più veloce del solito. D’altronde Mendelssohn è chiaro: Allegro vivacissimo, più di così non si può. Mai, nemmeno per un istante, si ha la sensazione iche Petrenko vada al di là di quel che ha scritto Mendelssohn, anzi lo rispetta alla lettera, con attenzione e direi anche con amore: la prova è che la musica scorre fluidamente, respira naturalmente e i dettagli vengono in superficie e allo stesso tempo si amalgamano perfettamente nel tutto.
La seconda parte era occupata dalla Sinfonia n. 10 di Šostakóvič, di rara esecuzione in Italia, dove si preferiscono - è difficile capire perché - proprio le sinfonie in cui il compositore russo si è dovuto assoggettare volente o nolente alle regole imposte dal regime sovietico, come la quinta e la settima. La decima è diversa. Fu scritta poco dopo la morte di Stalin e per questo qualcuno ha voluto vedervi una denuncia della personalità del dittatore, ma questo è a dir poco opinabile. Si direbbe piuttosto che questa volta Šostakóvič abbia potuto finalmente scrivere quel che voleva, perché il momento storico gli dava la libertà di tornare ad uno stile personale e autonomo senza correre troppi rischi. Non ci sono invece messaggi politici inevitabilmente retorici. Si avverte la gioia di Petrenko nel tuffarsi in una musica straordinariamente ricca, varia, magmatica, contraddittoria. Le linee si intrecciano e si sovrappongono, la massima complessità si alterna a valzerini d’ingannevole semplicità, il grottesco si mescola al tragico, crescendo di violenza apocalittica sfociano in improvvisi pianissimo, climax e anticlimax si susseguono a distanza ravvicinata. Una sinfonia estremamente complessa, che dura quasi un’ora e impegna un’orchestra sterminata, dal tamburello al basso tuba. Petrenko la dirige con vitalità ed energia inesauribili unite ad una precisione prodigiosa, che rende perfettamente percepibili tutti quei dettagli che sono essenziali ma che spesso scompaiono in quel ribollente magma sonoro. Un altro prodigio è che questo approccio analitico, per non dire chirurgico, non risulta minimamente meccanico e freddo e non va a detrimento della portata emozionale della sinfonia.
Tessere per l’ennesima volta le lodi di una macchina perfetta come l’orchestra berlinese è ormai superfluo.
Molto calorosi gli applausi dopo Mendelssohn ma non ci sono aggettivi per definire l’entusiasmo alla fine della sinfonia di Šostakóvič. Nessun bis.
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