Il Teatro La Fenice ricomincia dal soldato di Stravinskij
Ripresa di stagione della Fondazione lirica veneziana con L’histoire du soldat al Teatro Malibran con un palcoscenico rinnovato
Quando nel 1918 Igor Stravinskij decide di unire le forze con Charles Ferdinand Ramuz per creare qualcosa di nuovo erano davvero tempi duri: recisi i legami con la Russia rivoluzionaria, le risorse finanziarie scarseggiavano per non dire di un’Europa ancora profondamente scossa dalle ultime convulsioni della carneficina della Grande Guerra. La Russia entra nel soggetto burlesco vagamente faustiano con un soldato e un diavolo pescati dalle favole di Afanas'ev. Il risultato fu L’histoire du soldat: teatro musicale programmaticamente “di giro” e quindi leggero sia nella compagine strumentale in miniatura (due archi, due legni, due ottoni e un percussionista) sia sugli interpreti (una ballerina, mimi e un narratore), tutti su un piccolo palco con uno sgabello e una caraffa di vino per il narratore su un lato, gli strumentisti sull’altro, e dei siparietti di tela cerata dipinti da Auberjonois da arrotolare a mano come semplici scene.
Non siamo esattamente in tempi di grandi guerre ma a quel teatro leggero di Stravinskij e Ramuz guardano al Teatro La Fenice per la ripresa di stagione dopo una breve pausa estiva nella scena minore del Teatro Malibran, dotato di una nuovissima buca mobile che permette di estendere in modo significativo la superficie del palcoscenico, piuttosto angusto in questa storica sala. Se questo genere di produzioni in formato ridotto è destinato a essere il nuovo paradigma per i mesi pandemici a venire, la scelta di Stravinskij non era causale, visto che la riapertura coincideva con il compleanno di Peggy Guggenheim, amica del compositore e soprattutto della moglie Vera e, come il compositore, innamorata della città lagunare. Cancellato causa pandemia il tradizionale concerto nel giardino della residenza veneziana della collezionista, questo Histoire du soldat ne faceva degnamente le veci.
Sulla nuova superficie conquistata alla scena del Malibran si svolge dunque questa nuova produzione del celebre lavoro di Stravinskij, in formato, se possibile, anche più ridotto rispetto all’originale. Niente scene e parsimoniosi effetti di luce (di Fabio Barettin) così come ridotta all’essenziale è l’attrezzeria: un tavolo, un paio di sedie, di cui una fa da trono regale. Anche i costumi (di Marta Del Fabbro) sono ridotti a una giacca e berretto da soldato e ad un abito anni ’20 per la danzatrice. Ugualmente essenziale l’azione, che si regge quasi interamente sulla narrazione di un interprete unico, Francesco Bortolozzo, anche regista dello spettacolo. In questo lungo e intrigante monologo nel quale è mutato il testo di Ramuz in lingua italiana, Bortolozzo si mette alla prova con un’articolata tavolozza di mezzi espressivi, con solo qualche inciampo che tradisce forse l’emozione. Sua partner è la danzatrice e coreografa Emanuela Bonora, presenza elegante ma fredda nella sequenza di danze “americane” e anche di più in quella del diavolo.
Stanno al gioco anche i sette impegnati strumentisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice, che sono il violinista Roberto Baraldi, il contrabbassista Matteo Liuzzi, il clarinettista Simone Simonelli, la fagottista Ai Ikeda, il trombettista Guido Guidarelli, il trombonista Giuseppe Mendola e il “diabolico” Claudio Cavallini alle percussioni. Sul lato della scena, partecipano (timidamente) all’azione in qualche momento topico come il giovane direttore Alessandro Cappelletto, che, come il diavolo del racconto di Afanas'ev, consegna al soldato il libro magico in cambio del suo violino. Nella sua direzione del piccolo ensemble, fin troppo controllata e precisa, fa emerge poco la vivacità e lo spirito sardonico che Stravinskij instilla in questo suo lavoro giovanile.
Teatro gremito da tempi di Covid-19 con inevitabile distanziamento. Accoglienza festosa.
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