Il superbarocco di Alcina-Cecilia

Trionfo per l’Alcina di Haendel al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino con la Bartoli protagonista

Alcina (Foto Michele Monasta)
Alcina (Foto Michele Monasta)
Recensione
classica
Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Alcina
18 Ottobre 2022 - 26 Ottobre 2022

“Cecilia ha il raffreddore... ma canterà”, ha annunciato il sovrintendente Alexander Pereira prima che iniziasse la rappresentazione dell’Alcina di Haendel, suscitando prima i mormorii di scontento per l’ipotesi di una sostituzione, poi l’applauso, uno dei tanti, tantissimi, che hanno caratterizzato questa prima recita del titolo haendeliano, che si dava per la prima volta a Firenze, nella Sala Mehta da mille posti. In effetti la delusione, in caso di sostituzione, sarebbe stata grande per il pubblico, visto che la celebre cantante  mancava da Firenze da trent’anni.

   Nel frattempo, da cantante, da direttore artistico (come a Salisburgo dove questa Alcina è nata), da promotrice di progetti discografici di successo, Cecilia Bartoli è diventata, in tutto il mondo musicale che conta, la protagonista di un’idea e di un’immagine della vocalità e del teatro musicale del Settecento, di cui questa Alcina ci è sembrata lo specchio fedele.

   Al primo posto vogliamo mettere l’eccellente prova dell’orchestra Les Musiciens du Prince-Monaco diretta da Gianluigi Capuano. Orchestra e direttore di umori quantomai “bartoliani”, tesi ad una visione elettrizzante, fiammeggiante e survoltata della musica barocca, con le  articolazioni affillatissime, con le dinamiche tempestose, con un basso continuo quanto mai nutrito – sette esecutori – e dai timbri molto diversificati fra corda tenuta e pizzico, e con quella che ci è sembrata all’ascolto una totale estroversione di espressioni, umori, libertà (come nelle cadenze, nei luoghi topici della cadenza, i raccordi fra le sezioni dell’aria col da capo, la forma egemone in Haendel e anche in questo titolo), del tutto confacente a questa Alcina, che troneggia fra capolavori haendeliani dei primi anni Trenta come Orlando e Ariodante, con la stessa ricchezza e varietà di suggestioni, influenze della tragédie lyrique francese nelle pagine ispirate alla danza, ma anche memorie del Seicento italiano, e molto altro, in un miscela nutrita e affascinante. 

   Cast di grandissimo rilievo, lo stesso delle rappresentazioni a Salisburgo, a partire dal protagonista maschile Carlo Vistoli nel ruolo di Ruggiero, e Lucía Martín-Cartón nel ruolo di Morgana, stupendi vocalmente e scenicamente, ma tutto di alto livello, con Kristina Hammarstroem, Petr Nekoranek, Riccardo Novaro nei ruoli di Bradamante, Oronte e Melisso. Il ruolo del bambino Oberto in cerca del padre perduto Astolfo è stato sostenuto da un piccolo solista deiWiltener Sängerknaben di cui peraltro il programma di sala non rivelava il nome. Quanto alla stessa Bartoli, ha superato le evidenti difficoltà vocali del primo atto ed è apparsa pienamente se stessa nel secondo e nel terzo. Non tutti subiscono il fascino degli implacabili meccanismi e artifici delle agilità di Cecilia Bartoli, sempre sul filo, appunto (almeno a parere di chi scrive), dell’artificiosità. D’altra parte è proprio grazie a questo carattere di virtuosismo, spettacolare e spettacolarizzato, che  un intero repertorio ha riconquistato una fetta di mercato della musica e se lo tiene stretto. Ciò è parso evidente in questa prima recita in cui c’era sì una nutrita presenza di supporter bartoliani, ma in realtà tutto il pubblico, che quasi riempiva la sala, è apparso estremamente coinvolto. E infatti non abbiamo assistito a quegli esodi fra un atto e l’altro che spesso si vedono quando si danno le opere antiche, anzi l’attenzione cresceva e si faceva sempre più profonda.

   E in questo è stato certamente importante lo spettacolo di Damiano Michieletto (scene di Paolo Fantin, costumi atemporali o quasi di Agostino Cavalca, luci di Alessandro Carletti), di cui vogliamo dire che, come in molti altri casi di cui abbiamo memoria, ha superato con la caratura di un estro e di una magìa teatrale indubbi le riserve iniziali di chi scrive. Riserve legate in primo luogo alla definizione dello spazio, imperniato su un grande vetrata rotante che segnava il dubbio confine fra  illusione e realtà, ma,  con il suo nero totale e il bianco e nero talora macchiato di rosso sangue a effetto stroboscopico delle proiezioni, ci faceva pensare più che altro a una discoteca, effetto rafforzato dai molti figuranti (i cavalieri irretiti da Alcina) in scena o in trasparenza dietro quello vetrata, in pose sconfortate o in viluppi anatomici michelangioleschi. Come sempre, troppa roba ! veniva fatto di pensare. Ma poi nel secondo atto Michieletto realizzava una serie di scene in cui giostrava le arie solistiche in una sequenza psicologica a più personaggi, veramente molto bella e ben recitata, nel terzo inscenava suggestivamente il muto Astolfo trasformato da Alcina in mirto sanguinante (sulla scia delle suggestioni che in Ariosto derivano da Virgilio e Dante, Polidoro e Pier Delle Vigne), e infine, morta Alcina in seguito alla rottura dello specchio magico,  la faceva seppellire sotto le pietre recate dai cavalieri liberati dall’incantesimo mentre i frammenti dello specchio cadevano lentamente dall’alto. In definitiva il troppo-barocco-pop diventava teatro vibrante e vero.

   Successo finale davvero strepitoso, un vero trionfo, preannunciato dagli applausi che avevano costellato la fine di tutte le arie.

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