Il segreto dei Širom

Passaggio italiano per il trio sloveno Širom, sempre imperdibile per gli amanti delle musiche avventurose

Sirom Sala Vanni
Foto di Luca Segato
Recensione
oltre
Sala Vanni, Firenze
Širom
16 Febbraio 2024

Nel venerdì della tragedia del cantiere dell’Esselunga, per la quale è stato proclamato lutto cittadino il giorno dopo (con conseguente annullamento del live di Gnut sempre in Sala Vanni), arriva a Firenze, in apertura della stagione di Musicus Concentus,  il trio sloveno dei Širom, al termine di un mini tour italiano di tre date (Torino e Foligno le altre); la band – di cui abbiamo spesso parlato su queste pagine – sta nemmeno troppo lentamente ampliando il proprio seguito e così i posti in platea sono praticamente tutti occupati.

– Leggi anche: Širom, sembra folk ma non è

Giusto così, perché il blend di folk ancestrale, sottili ruggini avant, minimalismo, attitudine vagamente freak, esplorazione timbrica tra mondo premoderno, Harry Partch e mood esplorativo cattura l’attenzione, dimostrandosi unico e anche tutto sommato inedito.

Il segreto dei tre – se ce n’è (solo) uno – è quello di suonare antichi e futuristi al tempo stesso, o ancora meglio di riuscire a creare un suono senza tempo.

"Tradizione in movimento", il motto dell’organizzazione, calza a pennello per una musica immersiva, rituale, fragile e potente, che ha la forza di coinvolgere chi ascolta con una ricchezza strumentale e dialettica tra pieni e vuoti che crea un’esperienza sempre immersiva.

Seguo i Širom dal 2018, dai tempi del loro secondo lavoro, I Can Be A Clay Snapper, pubblicato, come i seguenti, da tak:til, sub-label della Glitterbeat, e in un certo senso posso dire di averli visti crescere.

Quel senso di rivelazione che ho avvertito agli inizi fortunatamente non si è sciupato, ma anzi si è evoluto e mi fa immaginare un futuro ancora luminoso per loro. Strumenti autocostruiti, cordofoni di varie fogge, percussioni, liuti amplificati con una molla collegata a un tamburo, pelli, legni e metalli che sanno di epoche mitologiche, di spazi remoti, essenziali, ospitali: un folk in opposition intatto, sospeso tra vertigini minimaliste, drone da pelle d’oca quando gli archetti scavano nelle grotte dell’anima, un’attitudine vagamente prog, con pezzi meticolosamente articolati che si svolgono spesso in forma di suite.

Ritmi dispari, controtempi, psichedelia da camera e un arsenale di strumenti antichi e autocostruiti. La novità in quello che è ad ora è il loro ultimo lavoro (The Liquified Throne Of Simplicity, del 2022) è il guembri suonato da Iztok Koren (anche a banjo e percussioni assortite); con lui ci sono Ana Kravanja a voce, violini, percussioni, strumenti autocostruiti e Samo Kutin a cordofoni di vario tipo, molti autocostruiti, tra cui una ghironda ibrida e modificata, percussioni e voce.

Tre lunghe tracce, tutte prese proprio dall’ultimo album e tutte attorno ai venti minuti. Peccato che all’inizio di “Wilted Superstition Engaged In Copulation”, almeno nelle retrovie dove siede il vostro cronista, l’acustica sia deficitaria: l’impasto delle frequenze basse del guembri e del tamburo non arriva nitido e, per una musica che vive di dettagli timbrici, questo è un problema non da poco.

Per fortuna, anche se poi durante la serata  qualche inciampo fonico si ripresenterà, le cose durante il concerto vanno migliorando e riusciamo così a entrare nel mondo magico degli sloveni. Il loro imaginary folk  non ha perso in efficacia e in nitore e, avendoli visti ormai diverse volte, è possibile per chi scrive prestare attenzione a dettagli e piccole variazioni nelle sinfonie in miniatura di Ana, Itzok e Samo.

Drone music da tempi remoti, ombre di corali, un senso di pathos e di umanità che conquista il folto pubblico accorso. Sono canzoni sui generis scritte durante il lockdown, racconta Samo, periodo durante il quale la band si è ritrovata suonando in posti non convenzionali nella propria terra. Questa esperienza è stata raccontata nel documentario Rural Underground, di cui consigliamo senz’altro la visione.

“A Bluish Flickering” si apre con una nenia di voci e archi, poi suoni di terra, perfino gli strappi di un rotolo di scotch, il violino usato con una bacchetta, una sorta di cetra, il banjo utilizzato con l’archetto; sono mille i particolari e mille i mondi da cui paiono provenire e verso cui sembrano viaggiare le esplorazioni della band.

Tubofoni, percussioni che amplificano una cetra tramite una molla producendo un suono paralettronico, violini primitivi: una specie di gamelan da luoghi familiari eppure non definiti né definibili, le fasi di Steve Reich che seguono le orme di Iva Bittová, un che di freak che fa riemergere mai sopite memorie psych nel pubblico più attempato, qualche frangente che ipotizza una bizzarra e imprendibile forma di post-rock acustico, e chissà quanto altro. 

Chiude “Prods The Fire With a Bone, Rolls Over With A Snake”, con una frase sghemba e incalzante di cetra a cui fanno da controcanto la voce e il violino di Ana e i tubi di Itzok a mo’ di vibrafono; poi le acque si increspano, i timbri si fanno più aspri e sale un crescendo che ritorna da capo; la seconda parte del pezzo si sfrangia nella forma, facendosi più free, con la voce di Samo ad aggiungere grammi di poesia alla farina messa sul tavolo.

Bisogna vederli dal vivo i Širom, per entrare nel loro altrove intatto. La band a marzo inizierà le session che porteranno alla registrazione del nuovo disco e ad aprile ripasserà in Italia per un altro pugno di date. Beato chi non li ha ancora intercettati su un palco e lo farà per la prima volta. 

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