Il Rameau delle periferie
Straordinario esordio per Clément Cogitore, regista della nuova produzione di Les Indes galantes all’Opéra Bastille di Parigi
Tutto è cominciato con un video. Un video prodotto da 3ème Scène, luogo (virtuale) di confronto fra tradizione e nuove tecnologie, laboratorio di sperimentazione di nuovi modi per raccontare l’opera, che l’Opéra national di Parigi ha inaugurato nel 2015. Clément Cogitore è un giovane videoartista e cineasta di talento: coinvolge un gruppo di danzatori di Krump e, con l’aiuto di tre coreografi antiaccademici come Bintou Dembélé, Igor Caruge et Brahim Rachiki, gli chiede di danzare “attorno” al rondeau des sauvages dalle Indes galantes di Rameau, riflesso “colto” delle danze tribali mostrate a Parigi nel 1723. Il risultato lo cattura in un video di poco più di cinque minuti, certo singolare ma è come se chiudesse un circolo dopo tre secoli, riportando Rameau alla ritmica compulsiva delle danze tribali dell’origine. La forza espressiva di quel video è straordinaria.
La stessa forza espressiva si libera sul grande palcoscenico dell’Opéra Bastille quando quei danzatori, certo anomali per una scena d’opera, si esibiscono nelle loro acrobazie sulla stessa aria di Rameau. Un’energia che investe l’enorme sala e fa esplodere un’ovazione lunghissima e unanime. Si è quasi alla fine di quello stravagante giro del mondo in quattro tappe immaginato da Jean-Philippe Rameau per la sua opéra-ballet nella lontana epoca di lumi, così lontano nel tempo eppure così vicino alla nostra sensibilità in questo spettacolo firmato da Clément Cogitore per questo suo straordinario esordio nella scena lirica. La babele di lingue coreutiche delle periferie urbane, nere per lo più, viene coniugata in un tessuto organico attento a preservare le individualità di ogni singolo danzatore-acrobata della compagnia “di strada”Rualité dalla coreografa Bintou Dembélé, nata nella banlieu di Parigi da immigrati africani sub-sahariani e immersa da sempre nell’alfabeto dell’hip hop e della breakdance. L’altro non è chi arriva dall’altra sponda dello stesso mare o alla fine del mondo ma chi vive a qualche strada di distanza, dice Cogitore, che, come questo Rameau, racconta, in maniera intelligente e senza prediche, l’altro attraverso il mondo e affronta la stessa riflessione sull’alterità, aggiornandola al nostro tempo e usando i segni del nostro mondo. La scena di Alban Ho Van è uno spazio nero fatto per accogliere la massa degli interpreti, senza distinzioni, vestiti da Wojciech Dziedzic con abiti che riproducono l’armonica cacofonia multietnica di un contesto urbano contemporaneo. Pochi elementi e funzionali soprattutto alle coreografie, che coinvolgono tutti, cantanti e coro compresi: sei cubi, elementi mobilissimi e una grande cavità circolare al centro della scena, penetrata dal braccio di una gru, imponente e inquietante come un’incombente divinità meccanica. Quel braccio lentamente estrae da quella cavità il relitto di una barca nel primo quadro (Il turco generoso) che racconta di amore fra migranti, un grande schermo a led nel secondo quadro (Gli Inca del Perù) che traduce la mistificazione del sacerdote Huascar in un moderno golem mediatico. Con una magia quasi felliniana da quella cavità emerge la giostra dei cavalli per la festa dei fiori persiana vissuta con incanto infantile nel terzo quadro, il meno risolto, aperto dalle schermaglie amorose della doppia coppia padroni-schiavi, dove naturalmente la schiavitù è sessuale nella cornice di un peep show. Risolta completamente attraverso una babele coreografica nordamericana dal cheerleading alla breakdance fino allo straordinario Krump del rondeau dell’ultimo quadro, che celebra l’amore dei “selvaggi” sulla paralisi emotiva mascherata di buone maniere degli europei, mentre il grande braccio meccanico illumina con la luce di un faro la vasta platea.
Componente fondamentale di questa produzione l’esecuzione musicale guidata in maniera eccellente da Leonardo García Alarcón alla testa della Cappella Mediterranea rinforzata nei ranghi per compensare la grande sfida acustica che lo spazio enorme dell’Opéra Bastille pone inevitabilmente a un complesso con strumenti originali. Il risultato, va detto, è eccellente: il suono è corposo e sempre luminoso, la nervatura ritmica è esaltata dalle eccellenti percussioni portate in primo piano nei copiosi numeri di danza e l’accompagnamento delle voci attentissimo all’equilibrio e alla chiarezza della parola. Impeccabile il cast vocale, soprattutto nell’agguerritissima compagine femminile, che presenta una smagliante Sabine Devieilhe nel triplo ruolo di Hébé, Phani e Zima, ma non meno brillanti sono Julie Fuchs come Émilie e Fatime e la solare Jodie Devos come Amour e Zaïre. Meno omogenea la componente maschile, con le notevolissime prove dei due tenori Matthias Vidal, Valère e Tacmas, e Stanislas de Barbeyrac, Don Carlos e Damon, non eguagliate dalle voci basse di Edwin Crossley-Mercer, Osman e Ali, del corrivo Alexandre Duhamel, Huascar e Don Alvar, e dell’esuberante Florian Sempey, il selvaggio-amante Adario. Ottima prova anche per il duttilissimo Coro da camera di Namur, perfettamente intonato allo spettacolo.
Un autentico trionfo alla prima, con oltre 10 minuti di applausi ritmati e ovazioni all’indirizzo di tutti gli artefici di questa riuscitissima produzione.
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