Il pathos dell'Orphée di Glass
Successo a Madrid per l'opera da camera da Cocteau
L’opera da camera Orphée che Philip Glass scrisse, riprendendo i contenuti e la sceneggiatura dell’omonimo film del 1959 di Jean Cocteau, è stato il titolo inaugurale della stagione operistica del Teatro Real di Madrid, nella quale emblematicamente saranno presenti anche gli altri due titoli fondamentali della storia della musica che hanno ripercorso questo mito: quello di Monteverdi e quello di Gluck.
Questo nuovo allestimento, realizzato in coproduzione con il Teatro Canal, si rappresenta sul palcoscenico della ‘Sala Rossa’ di questo teatro. Uno spazio insolitamente ‘moderno’, dove si può assistere alla convergenza anche di altri tipi di pubblico e di giovani, oltre a quello abituale dell’opera: segno questo dell’opportunità e della oculatezza di una programmazione che si apre ad altre istituzioni per allargare la sua utenza, offrendo anche uno sguardo sulla produzione contemporanea.
La regia, affidata al giovane e promettente regista spagnolo Rafael Villalobos, cercando di sganciarsi dall’ ingombrante eredità del modello del grande francese, sposta l’ambito della vicenda nella New York degli anni ’90, di un mondo sopraffatto dal dominio e dall’invasività del mezzo televisivo. Egli vuole quindi costruire una narrazione fortemente critica di un sistema capitalistico che, con questi mezzi, si era impossessato dell’espressione artistica. Un’intenzione registica che tuttavia resta sullo sfondo, con un impianto scenografico estremamente scarno, su cui sovrastano una serie di schermi televisivi, ma che non riesce ad imporsi in maniera intellegibile come ‘idea forte’, e che si viene mescolando ed intricandosi con un universo centrifugo di simbologie, di cui l’antico mito si fa portatore. Così anche il senso del racconto della sceneggiatura di Cocteau, di cui il libretto ne ripercorre le tracce, risulta difficilmente comprensibile per chi non ne avesse visto il film: a prevalere è nel complesso un livello espressivo fortemente dominato da una dimensione astratta. C’è, in ogni caso, un’abile e sapiente gestione dei movimenti dei personaggi, ricca di geometrie, di una gestualità e di una mimica fortemente stilizzate, che, come una coreografia, si adeguano coerentemente con l’assunto ed il divenire della musica di Glass.
A decretare il successo della rappresentazione resta una resa musicale decisamente attenta al dettaglio che riesce a far risaltare tutta una serie di colori dal continuum di una struttura solo apparentemente ‘meccanica’ della partitura del compositore americano. Con una lettura quasi barocca il direttore Jordi Francés conferisce a questa esecuzione un particolare pathos che, dalla meccanicità e dagli assunti ripetitivi, che sono il marchio del linguaggio di Glass, riesce a far emergere linee di intensa cantabilità e atmosfere strumentali dense di mistero. Un cast vocale fortemente motivato e di qualità ne ha quindi rinforzato l’impatto. Notevole la prova della la soprano María Rey-Joly, nel ruolo della principessa della morte, a sostenere la sua parte con forza, volume e ricchezza di dinamiche; mirabile il suo duetto con l’Orfeo, interpretato dal baritono Edward Nelson: una vocalità la sua densa di accenti lirici. Un lirismo che l’Euridice Sylvia Schwartz riesce a far emergere con tratti di particolare dolcezza. Perfettamente languido e dolente Il Cegeste di Pablo García-López; duttile, istrionico o e nel contempo romantica l’interpretazione di Heutebise da parte di Mikeldi Atxalandabasso.
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