Il Medioriente immaginario
La fusion del Dhafer Youssef Quartet conquista sul finale
Recensione
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L'inizio è soffice, con il piano di Kristjan Randalu che accenna alcune tessiture armoniche in cui la voce di Dhafer Youssef entra percussiva, battuta sul petto, dando l'effetto di un filtro elettronico solo grazie al potente riverbero e alla padronanza precisa dello strumento voce.
La Sala Petrassi dell'Auditorium di Roma è gremita, l'ascolto “mistico” tiene gli spettatori appesi a un filo, silenziosi, incuriositi per i toni acuti e falsettati al limite del possibile. Ed è sulle note più alte che Youssef passa il testimone alla sezione ritmica di Phil Donkin (contrabbasso) e Ferenc Nemeth (batteria) che dà veramente inizio al concerto. L'amalgama che si crea è la fusion raffinata a cui il musicista tunisino ha abituato negli anni, forte di un inseguimento al fulmicotone tra piano, contrabbasso e batteria in cui Youssef padroneggia con il suo oud.
La musica è strabordante di note, un'accumulazione tanto intrigante quanto a volte fine a se stessa e carente di un respiro maturo. Una cavalcata in apnea straordinaria a livello tecnico ma meno convincente dal punto di vista compositivo. E nello scorrere dei brani, tra i pianissimi e i fortissimi, tra i sussurri e le “grida”, la sensazione è di ascoltare un paesaggio sonoro “mediorientale” più immaginario che reale, fin troppo rassicurante e facile.
Nel momento in cui l'ottimo batterista esce di scena, ecco però ritrovare nel gruppo quel respiro che sembrava mancare: si percepisce bene soprattutto il cambiamento di ascolto tra i tre sulla scena. Una dimensione perfetta questa, per trasportare il pubblico in un luogo senza tempo, e da cui il concerto riparte più convincente. Torna Nemeth sul palco e la musica adesso rotola fuori dai cliché, e dà forma a un grintoso e onesto finale dalle trame mediterranee che riesce a conquistare.
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