La Lulu è stata eseguita per la prima volta a Roma nel 1968, ventinove anni dopo la prima assoluta, ma ce ne sono voluti quarantanove perché tornasse sul palcoscenico dell'Opera: se ne deduce che la programmazione dei vecchi enti lirici era più coraggiosa di quella delle attuali fondazioni, che possono forse invocare a loro discolpa le difficoltà e i costi di una produzione della seconda e ultima opera di Berg, ma non il presunto disinteresse del pubblico, che la sera della prima era piuttosto folto e non ha lesinato gli applausi. Certamente Lulu non è un'opera facile per l'ascoltatore, ma ciascuno può ricavarne il significato che più gli sta a cuore. L'interpretazione più corrente vede nella protagonista la moderna donna emancipata, che con la sua libertà, simboleggiata dalla spregiudicatezza sessuale, mette in crisi le certezze degli uomini che si innamorano di lei e li annienta. Questo presupporrebbe però una sorta di giudizio morale sui personaggi, di cui in Berg non c'è traccia. L'opera è molto di più. È lo spietato ritratto dell'intera umanità, condensata in uno spaccato della società viennese dei primi decenni del Novecento: ogni personaggio recita la parte assegnatagli in quel teatro - o piuttosto circo, perché ognuno è presentato all'inizio dal domatore come un animale - che è la vita, senza che nessuno sia migliore degli altri. Ma la cosa peggiore è come tutto sia assurdo, l'amore come l'omicidio: le cose avvengono senza una causa né uno scopo, nulla ha senso. Gli esseri umani agiscono macchinalmente, totalmente alienati. La violenza espressionista del testo di Wedekind è sostituita da Berg con una vocalità fredda e con taglienti e secchi commenti orchestrali. Non ci sono sentimenti, né compassione: in questo la Lulu rivela di essere contemporanea all'ironia del kabaret e al distacco epico del teatro di Brecht, ma è più spietata. Solo negli ultimi due minuti le parole della Geschwitz morente rivelano che esiste ancora un barlume di sentimento negli umani.
Ci si aspettava molto dallo spettacolo firmato da William Kentridge e l'attesa non è andata delusa. Come l'artista sudafricano aveva promesso, la sua regia era fedelissima al testo, ma non si fermava alla superficie e scavava nelle parole e nella musica, mettendone in luce i risvolti inquietanti. Alla stessa maniera scene e costumi riproducevano fedelmente le architetture, gli arredi e gli abiti degli anni intorno al 1930, però sempre con una parete sghemba o un colore improbabile o qualcos'altro che rivelava una crepa in quell'apparente ordine. Ma l'elemento caratterizzante di questa regia era la proiezione sulle pareti di volti umani disegnati con larghi e densi tratti neri, che si andavano formando e trasformando e disfacendo in continuazione, rivelando l'angoscia che domina nell'opera di Berg.
La direzione di Alejo Pérez era precisissima e non si lasciava sfuggire un dettaglio della partitura, rivelandone la glaciale teatralità. Ottima la compagnia di canto, a partire da Agneta Eichenholz nel difficilissimo ruolo della protagonista e proseguendo con Jennifer Larmore (Geschwitz), Martin Gantner (Schön e Jack lo Squartatore), Willard White (Schigolch), Brenden Gunnell (Pittore). Per indisposizione del cantante che avrebbe dovuto interpretare Alwa, questo ruolo è stato recitato in palcoscenico dall'aiuto regista Luc De Wit e cantato - molto bene - da Charles Workman, che stava in un angolo davanti al leggio.
Note: Nuovo allestimento in coproduzione con Metropoltan Opera di New York, English National Opera di Londra e De Nationale Opera di Amsterdam
Interpreti: Agneta Eichenholz, Jennifer Larmore, Tamara Gura, Peter Savidge, Brenden Gunnell, Martin Gantner, Charles Workman, Willard White, Zachary Altman, Christopher Lemmings, Eleonora de la Pena
Regia: William Kentridge
Scene: Sabine Theunissen
Costumi: Greta Goiris
Orchestra: Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma
Direttore: Alejo Pérez
Luci: Urs Schoenebaum