Il debutto di Sabine Devieilhe e il ritorno di Nicola Luisotti
Il soprano francese per la prima volta all’Accademia di Santa Cecilia con tre arie da concerto di Mozart
Debuttava a Roma Sabine Devieilhe, che in Francia è già una star, premiata con tutti i premi cui una cantante può ambire, ma in Italia finora era nota soltanto per la sua Blonde alla Scala nella ripresa della storica edizione Strehler-Mehta del Ratto del Serraglio. Effettivamente è una cantante sensazionale, per alcuni aspetti. Sale agli estremi acuti con facilità e naturalezza totali: nella prima delle tre arie di Mozart in programma – “Vorrei spiegarvi, oh Dio!” – dapprima tocca il mi sovracuto, poi raggiunge il re sovracuto con un vertiginoso salto ascendente di oltre due ottave, tutto come se nulla fosse. La voce è immacolata, il timbro un po’ povero di armonici ma cristallino, l’intonazione perfetta, ma… sembra un ottavino, perché in tanta purezza strumentale si desidererebbe un minimo di vibrazione espressiva (che ovviamente non significa vibrato), un fraseggio più vario e una migliore articolazione del testo, che viene trattato alla stregua delle sillabe di un vocalizzo. Il repertorio ideale di questa voce non sembra quello mozartiano ma quello francese, come la Devieilhe stessa lascia intendere in un’intervista: Lakmé, Olympia nei Contes d’Hoffmann, Philine in Mignon, Ophelie in Hamlet, sulla scia di grandi cantanti transalpine del passato come Lily Pons, Mady Mesplé e Natalie Dessay. Comunque uno strumento come il suo, forgiato da una tecnica sopraffina e manovrato con grande attenzione allo stile, ha meritato le ovazioni tributatele dal pubblico dell’Accademia di Santa Cecilia.
Aveva aperto il concerto la Sinfonia n. 8 di Beethoven, che alcuni continuano a considerare la minore delle nove sorelle. Però Beethoven, quando fu presentata insieme alla Settima e venne applaudita meno dell’altra, disse stizzito che la migliore era proprio l’Ottava. D’altronde anche gli ultimi Quartetti, oggi considerati un vertice della musica d’ogni tempo, furono a lungo incompresi. Forse ora è giunto il momento dell’Ottava, che non ha l’afflato epico ed etico delle più popolari delle nove Sinfonie, ma non è affatto inferiore a quelle per i suoi valori puramente musicali ed è una dimostrazione abbagliante di che tempra di musicista fosse Beethoven. Qui tutto è pura musica e ad ogni battuta s’incontrano idee brillanti, inattese e geniali nel modo di presentare e sviluppare i temi, nell’intreccio dei motivi secondari, nella strumentazione, nelle soluzioni armoniche: non sono tecnicismi e per apprezzarli non bisogna aver studiato, basta avere un paio di buone orecchie. Nicola Luisotti la dirige con gesto elegante, chiaro, sicuro, scegliendo tempi rapidi e mettendoci la giusta dose d’energia ma senza forzare la mano e lasciando emergere ogni dettaglio, ma senza cedere alla tentazione di metterli troppo in evidenza ed evitando così il rischio di interrompere il flusso continuo di idee musicali, che zampillano ininterrottamente una dopo l’altra.
In conclusione si è ascoltata la Sinfonia n. 7 di Prokof’ev, la sua ultima, che si ricollega idealmente alla prima, la Classica, sia per la chiarezza della struttura e per i temi lineari e melodici sia per l’assenza delle sonorità pesanti e aggressive, dei ritmi massicci e meccanici e del sarcasmo beffardo che caratterizzano gli altri cinque lavori di questa serie. Luisotti ne ha offerto un’interpretazione molto bella, equilibrata, solare. E anche molto italiana, ovvero cantabile e lirica, con un’attenzione particolare alla fascinosa pienezza e bellezza del suono, trovando un’eccellente risposta da parte dell’orchestra, che, a giudicare dai risultati, si è trovata totalmente a suo agio col direttore toscano.
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