Il centenario in minore di Salisburgo

Due sole produzioni operistiche al Festival di Salisburgo in tempo di Covid-19: Elektra e Così fan tutte

Elektra
Elektra
Recensione
classica
Festspielhaus (Felsenreitschule / Großes Festspielhaus)
Festival di Salisburgo
01 Agosto 2020 - 30 Agosto 2020

Nell’estate dei festival musicali decimati dal Covid-19, Salisburgo ha resistito a lungo e salvato il salvabile tagliando pesantemente sui programmi annunciati per le celebrazioni del centenario. Indubbiamente si è trattato di un festival prudente, sottotono e sobrio come impongono tempi di grande incertezza ma l’importante era marcare una presenza e soprattutto mostrare coraggio in un paesaggio culturale europeo ridotto in macerie. Tanto più che l’ampia capacità delle sale del Festspielhaus salisburghese consentiva un adeguato distanziamento del pubblico con una riduzione significativa dei posti a sedere ma più contenuta che in altre situazioni.

Quanto ai titoli del cartellone operistico, nella celebrazione in tempo di pandemia si sono salvati ovviamente i due numi tutelari del festival centenario: il salisburghese Mozart e Richard Strauss. Sono loro le due opere delle otto inizialmente previste. L’unica produzione a essere confermata intatta è stata Elektra, mentre la doppietta mozartiana– la ripresa di Die Zauberlöte e il nuovo Don Giovanni firmato Castellucci – è stata rimpiazzata da un così Così fan tutte firmato da Christof Loy, dirottato dal previsto Boris Godunov che, come il resto del ricco programma del centenario, è rinviato a tempi migliori.

Gruppo di famiglia in un inferno

«Entrambe sono in un atto, entrambe hanno un nome di donna come titolo, entrambe si svolgono nell’antichità, entrambe le ha interpretate a Berlino per la prima volta la Eysoldt: credo che tutta la loro somiglianza stia in questo.» Non era senza preoccupazione che Richard Strauss notava la somiglianza fra Salome e Elektra. Somiglianza che invece sembra ispirare la scelta di questo titolo straussiano che segue la trionfale Salome di due edizioni fa: sul podio dei Wiener Philharmoniker si ritrova Franz Welser-Möst, bacchetta straussiana d’elezione a Salisburgo, mentre sulla grande scena della Felsenreitschule torna Asmik Grigorian, in questo caso non come protagonista. Malgrado i significativi ingredienti comuni, tuttavia, il miracolo non si è ripetuto come non succede quasi mai (la liquefazione del sangue di San Gennaro è un caso quasi unico).

Diversa invece è la regia di questa Elektra, affidata a Krzysztof Warlikowski, che, messi da parte pepli e coturni, dipana la materia drammatica secondo le linee di un diligente trattatello sull’isteria con il suo consueto repertorio di inserti cinematografici e variazioni artaudiane sul tema della famiglia castratrice. Il grande spazio orizzontale chiuso dall’alta parete rocciosa è diviso da Małgorzata Szczęśniak fra una scatola semovente dalle scure pareti riflettenti, cioè il palazzo nel quale hanno luogo i massacri, e l’interno di un bagno con una sinistra parete di docce e una stretta piscina sul davanti, luogo di abluzioni pre-sacrificali. Le proiezioni di Kamil Polak sulla grigia superficie di roccia evocano incubi e traumi infantili di Elektra, che osserva la madre Klytämnestra nel monologo iniziale con le mani ancora lorde del sangue del marito e attende di compiere la vendetta ai margini della vita, e inondano la scena di rosso sangue (con contorno di mosche voraci) quando la vendetta finalmente si compie. Non per mano di Elektra e forse nemmeno di Orest che, come la sorella svuotato dai propri traumi, lascia l’arma alla più decisa Chrysothemis, nell’unica torsione registica in una narrazione altrimenti lineare e scarsamente inventiva.

Piuttosto assente appare specialmente la direzione attoriale, che conta fin troppo sulle capacità del trio delle protagoniste femminili e soprattutto di Ausrine Stundyte, Elektra ferina e vocalmente solida come una roccia ma capace anche di momenti di abbandono lirico, e di Tanja Ariane Baumgartner, che di Klytämnestra esalta la dimensione tragica e visionaria, mentre convince meno Asmik Grigorian non certo per l’inappuntabile qualità vocale ma per il ritratto appena abbozzato del personaggio Chrysothemis. Convince decisamente meno il debole Orest di Derek Welton così come anodine sono le altre presenze sul piano drammatico. Di grande rilievo invece la direzione di Franz Welser-Möst, che, contraddicendo lo Strauss direttore (“Signori, qui non si tratta di musica! Dev’essere un giardino zoologico: suonate forte e soffiate negli strumenti!”), chiede agli spettacolari Wiener Philharmoniker sonorità morbide e delicate ma soprattutto fa cantare e sentire il canto. Difficile ascoltare una Elektranella quale ogni filo della complessa trama musicale intessuta da Strauss si coglie con una plasticità esemplare, senza che ne soffra la tensione. Anzi.

 

Così fan tutt* ossia nel laboratorio degli amanti

Per una curiosa reticenza della direzione, il Così fan tuttemesso nel cartellone d’emergenza in fretta e furia rischia di passare per un nuovo spettacolo. Invece si tratta, se non proprio di una ripresa, di un riallestimento della produzione firmata da Christof Loy nel 2008 per l’Oper Frankfurt, dove lo spettacolo è rimasto in cartellone in varie stagioni. Se ha il pregio della portabilità ed è funzionale al messaggio universale dell’opera di Mozart (si è anche sentito di pressioni sul regista per cambiare il plurale femminile del titolo in un Così fan tutt* meno sessista e più politicamente corretto, in sintonia con i tempi), il minimalismo estremo del linguaggio teatrale del regista rischia di apparire generico e buono per qualsiasi opera. Ossia, per dirla dapontianamente, Così fa tutto. Rispetto alla produzione originale, Loy viene meno al proprio credo “integralista”, che lo porta sempre a riaprire tutti i tagli compresi nei recitativi, ma la contingenza impone tempi più contenuti e la soppressione dell’intervallo, da cui la riduzione dell’opera mozartiana a poco più di due ore attraverso tagli sostanziali ai recitativi mentre i numeri musicali restano sostanzialmente intatti.

La scena è quella ampia del Großes Festspielhaus, che lo scenografo Johannes Leiacker riempie con una parete bianchissima con due porte bianche aperte su interni altrettanto bianchi e qualche gradino digradante verso l’orchestra. Unica eccezione: l’apertura su un esterno buio con un grande albero nella serenata del secondo atto, tutt’altro che rassicurante e idilliaca, il cono d’ombra dei lumi proiettato su chi “da ragion guidar (non) si fa”. Rispetto alla versione di Francoforte, mancano le due pareti bianche perpendicolari semoventi a suggerire i diversi ambienti. Anche la scelta dei costumi contemporanei di Barbara Drohsin, come nella produzione originale, disancora l’azione da qualsiasi coordinata settecentesca. L’azione è completamente lasciata ai corpi e movimenti, fin troppo studiati, dei sei interpreti, che si osservano come sul vetrino di un asettico laboratorio dei sentimenti umani. Pochissimi indizi di commedia e nessuna traccia di settecentismo nel gioco azzerato dei travestimenti, è piuttosto l’amaro di una malinconica commedia umana il sapore che lascia questo spettacolo.

Il sestetto di interpreti si direbbe assemblato soprattutto con l’abituale metro dello star system: stanno tutti al gioco di Loy ma non tutto torna sul piano vocale. Non torna soprattutto la prova di Elsa Dreisig, che è una Fiordiligi priva di smalto e con qualche forzatura di troppo negli acuti, ma anche Marianne Crebassa come Dorabella non va troppo oltre una prova corretta. Meglio fa Lea Desandre, la cui Despina elegante e piuttosto cerebrale manca tuttavia della leggerezza scanzonata del personaggio. Più convincente nel complesso è il comparto maschile, non tanto per il Ferrando un po’ scialbo di Bogdan Volkov ma per il Guglielmo di Andrè Schuen, vocalmente il migliore in campo, e per il Don Alfonso poco cinico e molto umano reso con la solita classe da Johannes Martin Kränzle, l’unico del cast della produzione originale francofortese. Molto attesa al debutto a Salisburgo, Joana Mallwitz restituisce finalmente il senso del dramma giocoso attraverso un gesto fluido e dinamico sul quale si posa talora un leggero velo di malinconia.

 

 

 

 

 

 

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