Il cane Barkouf e il potere al popolo
All’Opéra du Rhin di Strasburgo riproposto dopo 158 anni il primo lavoro di Jacques Offenbach per l’Opéra Comique
E se un cane prendesse il potere? Forse le cose andrebbero meglio! Il cane in questione è Barkouf, protagonista eponimo dell’opéra-bouffe di Jacques Offenbach, recuperata dall’Opéra national du Rhin in occasione dell’incombente bicentenario del compositore da un oblio durato 158 anni grazie al paziente lavoro di ricostruzione e restauro di Jean-Christophe Keck. Alla prima commissione importante da parte dell’Opéra Comique, seconda scena francese dell’epoca, al re dei Bouffes-Parisiens non furono negati gli ingredienti per un sicuro successo: un soggetto certo stravagante ma con ambizioni filosofiche dell’abate Blanchet, una firma importante per il libretto cioè quella del venerando Eugène Scribe (aiutato dal giovane collaboratore Henry Boisseaux), e un cast importante con in testa la diva Delphine Ugalde recuperata da poco agli splendori della Salle Favart. Poi si misero di traverso la censura, che trovó disdicevole che un cane con le sue espressioni vocali avessero quel peso in un componimento drammatico e che addirittura diventasse re, la maternità della Ugalde, le malattie degli altri e contrattempi di ogni tipo. Ci vollero dunque molte prove supplementari e aggiustamenti continui alla partitura, ma si riuscì comunque a andare in scena il 24 dicembre 1860 con un certo successo ma anche con critiche feroci (qualcuno parlò di Barkouf come “chiennerie en trois actes, de l’invention de M. Scribe”). Nel complesso le repliche furono meno delle defezioni e non si andò oltre la recita del 16 gennaio 1861. Poi, il silenzio. Offenbach ci riprovò dieci anni dopo riciclando molto del materiale in Boule de neige per i Bouffes-Parisiens, ma la sorte non fu molto diversa.
Su questa “chiennerie” a Strasburgo si è messa al lavoro la giovane regista Mariame Clément, comprovato talento per la commedia, ma che in questo Barkouf è sembrata girare un po’ a vuoto. Va detto che questo Offenbach, genesi tormentata a parte, sembra in bilico fra il rodato mestiere dell’operettista, che si traduce in numeri al limite del nonsense (i più riusciti), e ambizioni più elevate, che si intuiscono nei passaggi musicali più elaborati e nelle arie costruite con una certa complessità e tecnicamente piuttosto esigenti. Davanti al bivio, la Clément pare indecisa sulla direzione da prendere e opta per una facile attualizzazione di superficie con il solito sfoggio di divise militari fra immense scaffalature di scartoffie ministeriali (scene e costumi sono di Julia Hansen), cestinando quindi l’esotismo di cartapesta del dominio del Grand Mogol e della Lahore affidata al governo del suo cane in sfregio ai suoi bellicosi abitanti. Volendo spingersi più in là, si poteva anche insistere di più sull’idea che i sedicenti intenti politici del canino vicerè vengono interpretati dalla fioraia Maïma, antica padrona di Barkouf e unica in grado di mitigarne le bestiali intemperanze, che, in nome del cane, disarciona le élite impersonate dal buffonesco gran visir Bababeck e riconsegna il comando al popolo, abbassando di botto le tasse, assolvendo i “casseurs” golpisti e conquistando così il consenso popolare (e basterebbe sostituire il cane con una piattaforma digitale per apprezzare la profondità del paradosso). Invece, si assiste a una infilata di gag più o meno riuscite che trasformano un recupero interessante sulla carta in una tranquilla serata di intrattenimento leggero.
Anche sul piano più strettamente musicale, Jacques Lacombe non si spinge troppo al di là di una rassicurante routine, preferendo ritmi tranquilli da commedia sentimentale a quelli delle compulsive danze offenbachiane. Funzionale il contributo dell’Orchestre symphonique de Mulhouse. Sulla scena, l’ensemble vocale è omogeneo e generalmente efficace nel dare corpo ai personaggi. Particolarmente riuscite sono le prove di Pauline Texier, la spumeggiante fiorista-canara Maïma, e di Rodolphe Briand, il buffonesco visir Bababeck legatissimo ai rodati cliché della tradizione buffa francese. Buone, anche se meno incisive sul versante scenico, le prove di Fleur Barron, la venditrice di arance Balkis, Stefan Sbonnik, il “casseur” sentimentale Xaïloum, Patrick Kabongo, l’ufficiale Saëb fedifrago per opportunismo ma amoroso vocalemente affidabile, Anaïs Yvoz, spiritosa Périzade baffuta come la Gioconda di Duchamp, Nicolas Cavallier, l’insofferente Grand Mogol, e Loïc Félix, l’eunuco Kaliboul. Incisivi gli interventi del Coro dell’Opéra national du Rhin preparato da Alessandro Zuppardo.
Nonostante il clima natalizio turbato dall’attacco terroristico, a Strasburgo si è decido di andare comunque in scena e il pubblico non è mancato. Risate, applausi calorosi.
interpreti
Rodolphe Briand (Bababeck, grand vizir), Nicolas Cavallier (Le Grand-Mogol), Patrick Kabongo (Saëb, officier), Loïc Félix (Kaliboul, eunuque), Stefan Sbonnik (Xaïloum, amoureux de Balkis), Pauline Texier (Maïma, jeune bouquetière), Fleur Barron (Balkis, marchande d'oranges), Anaïs Yvoz (Périzade, fille de Bababeck)
regia
Mariame Clément
coreografia
Mathieu Guilhaumon
scene
Julia Hansen
costumi
Julia Hansen
luci
Philippe Berthomé
orchestra
Orchestre symphonique de Mulhouse
coro
Chœurs de l'Opéra national du Rhin
maestro del coro
Alessandro Zuppardo
direttore
Jacques Lacombe
note
Nuovo allestimento in coproduzione con Oper Köln. Prima rappresentazione in tempi moderni dopo il 16 gennaio 1861.
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