Il caleidoscopio di Pletnev alla IUC
Il pianista da Bach a Grieg
In una sala strabordante di pubblico avanza lentamente sul palco, rivolge lo sguardo al grande affresco di Sironi dell’Aula Magna e appena accomodato sulla sedia-sgabello attacca Bach. L’incipit ritmico del Preludio in re maggiore e poi la seguente fuga dal secondo volume del Clavicembalo ben temperato già prefigurano la ricchezza di inflessioni e la libertà in cui si snoda il percorso bachiano di Pletnev. Da una filigrana sottile e finissima di suoni emergono le voci, un caleidoscopio di intenzioni musicali le più diverse, tanto ricco e sorprendente da inondare l’ascoltatore di meraviglia. Così anche nei successivi Preludio e fuga in sol minore del primo volume – quasi sensuale la morbidezza del preludio caratterizzato dal lungo trillo - e in sol maggiore dal secondo volume – decisamente più toccatistico il preludio e giocosa la fuga a due voci. Nell’ultimo dei quattro che costituivano il programma, il Preludio e Fuga in si bemolle minore del secondo volume (e non del primo come erroneamente indicato dal numero di catalogo scritto nel programma), l’arditissima fuga a quattro voci si snodava con una chiarezza e un gioco di rimbalzo delle linee resi con uno straordinario virtuosismo della conduzione polifonica, culminato in un accordo finale con qualche libero arricchimento armonico.
Con Kreisleriana di Schumann si entrava nel mondo immaginario abitato da un fantomatico personaggio creato dalla penna di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Al di là del bizzarro protagonista che è alla base dell’ispirazione del pezzo, l’op. 16 è una composizione giovanile, ricca di slanci e di contrasti, di impeti e di riflessioni. Come allontanando lo sguardo e stemperando i contrasti, Pletnev moderava le sonorità quasi mai oltre un ‘forte’ contenuto, liberamente articolava le frasi pronunciandole talvolta in modo inusuale, evidenziava la polifonia interna. La continuità con Bach era evidente ma al tempo stesso veniva raggelato l’impeto baldanzoso e giovanile per rendere predominante gli aspetti visionari e irrazionali, introversi e anche grotteschi. Così che il movimento di terzine, quasi una cavalcata che attraversa e con cui si conclude l’intero pezzo diventava un po' alla volta – con effetto suggestivo - l’incedere sghembo di un personaggio grottesco, quasi uno Scarbo ante litteram.
In quei piccoli gioielli che sono i Pezzi Lirici di Grieg, dalla scrittura decisamente meno complessa di quanto precedentemente eseguito, Pletnev portava la profondità del suo sguardo introspettivo immergendoli in un’atmosfera plumbea, potentemente drammatica. Liricamente dolenti, a volte ostinatamente ritmici – mutuando dalla tradizione folclorica – quasi bartokiani a tratti, portavano ad un’idea del Nord brumosa e scura, più tragica che malinconica. Ne era pressochè esclusa la natura fresca e talvolta immediata di queste pagine, che risultavano filtrate da una gravità incombente. Sarà stato per questo forse, che il concerto di un assoluto fuoriclasse come Pletnev, pianista straordinario quanto algido, si è concluso con un solo bis. Ancora Grieg, ancora un foglio d’album, ma così ispido da scongiurare la fascinazione che da un bis inanella nell’altro così come accade nell’epica concertistica dei pianisti comunicativi, categoria alla quale Pletnev non sembra volersi troppo preoccupare di appartenere.