Il barbiere del Ticino
Debutta con successo l’opera di Rossini con la direzione di Fasolis e la regia di Rifici, prima produzione operistica del LAC di Lugano
Raccontano le cronache che un tempo nemmeno lontanissimo Lugano vantasse una vivace attività musicale. A parte occasioni sporadiche, una certa continuità produttiva coincise con l’apertura del Teatro Apollo alla fine dell’Ottocento e rallentò progressivamente fino alla (simbolica) distruzione dell’edificio per far posto al casinò all’inizio di questo secolo. Nel 2015 apre il LAC e dà la sveglia alla Lugano culturale, bella addormentata nel vivace panorama culturale e musicale svizzero. Le prime stagioni concertistiche e teatrali funzionano e il LAC si lancia adesso nel business dell’opera unendo nello sforzo produttivo i maggiori produttori della città come LuganoMusica, LuganoInScena e la Radiotelevisione della Svizzera italiana.
Complice l’anno rossiniano, per il battesimo si sceglie un titolo a rischio zero come Il barbiere di Siviglia ma per l’interpretazione si punta su una delle più brillanti formazioni storicamente informate del momento come I barocchisti, che per di più gioca in casa, e sul loro direttore-fondatore Diego Fasolis, gran barocchista di statura internazionale.
Sul piano strettamente musicale, i risultati si sentono. Questo nuovo Barbiere si fa apprezzare per una certa limpidezza di suono, sempre leggero ma mai privo di corposità, e per il taglio originale di certe soluzioni strumentali, in particolare nel generoso uso “spagnolesco” di strumenti a corda, cui Fasolis dà particolare risalto, così come qualche tocco “alla barocca” nelle fioriture e nelle piccole improvvisazioni lasciate ai bravi strumentisti.
Funziona un po’ meno invece sul piano della scorrevolezza teatrale: i recitativi sono poco brillanti e un po’ prolissi, il coro è impacciato e mai preciso, e troppo timido appare il lavoro sui solisti per ripulirli di ogni incrostazione di certe consumate convenzioni interpretative e cercare una trama e un colore vocali più omogenei. In altre parole, il lavoro di restauro in nome dell’autenticità operato da Fasolis sembra essersi fermato a un passo dall’ambizioso traguardo.
Considerazioni stilistiche a parte, se manca la squadra i bravi giocatori non mancano, cominciando del Figaro di solare estroversione di Giorgio Caoduro: mezzi robusti, di cui fa sfoggio esagerato nella celebre cavatina, ma anche flessibili che gli consentono piccole raffinatezze e lavoro di cesello. Edgardo Rocha torna al ruolo collaudatissimo di Almaviva: acuto facile ma la routine qua e là si fa sentire, specie nell’affrettata grande aria “Cessa di più resistere”. Lucia Cirillo, scontato qualche impaccio nella cavatina e più di un’improvvisazione avventurosa, è corretta ma non ha la caratura né il carattere delle grandi Rosine della scena. Apprezzabile per misura e garbo il Bartolo del buffo (ma non troppo) Riccardo Novaro, mentre Ugo Guagliardo è un Basilio di scarsa presenza e poco smalto. Corrette le prove di Yiannis Vassilakis (Fiorello) e Matteo Bellotto (un ufficiale) e molto divertenti l’esasperata Berta di Alessandra Palomba e l’Ambrogio muto e snodatissimo di Alfonso De Vreese, protagonista di un tormentone sul tema di un sonno invincibile.
Non si discosta troppo da canoni tradizionali lo spettacolo firmato da Carmelo Rifici, che ha comunque punti di forza nella cura del gesto scenico e nella scorrevolezza della narrazione, arricchita di trovate spiritose e di garbate gag e affollata di mimi. Come spesso nell’inaugurazione di una nuova “casa”, le esuberanti scelte scenografiche di Guido Buganza – una scatola scenica coperta di azulejos dal sapore antico con inserti luminosi di sapore “pop” e praticabili mobili – fanno intuire la voglia di testare le possibilità scenotecniche. Puntano decisamente sul classico i costumi di Margherita Baldoni, che si immagina un Settecento esaltato nelle fogge e ricercato nei materiali.
Sala esaurita, molti applausi. Ci sarà un futuro per una stagione d’opera ticinese?
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