Idomeneo tra le macerie del vicino oriente
All'Opera di Roma la regia di Robert Carsen ambienta l’opera di Mozart nei paesi delle rive orientali del Mediterraneo devastati dalle guerre
La firma di alcuni registi si riconosce immediatamente all’apertura del sipario, ma non è così per Robert Carsen e questo è il segno che i suoi spettacoli non partono da qualche idea aprioristica ma nascono dal testo e dalla musica e su loro si modellano ogni volta in modo diverso. Nei suoi ultimi due spettacoli visti a Roma e dintorni (rispettivamente all’Opera e al Festival di Spoleto) Robert Carsen aveva in un caso riletto il mito di Orfeo ed Euridice alla luce dell’esperienza del lutto che ogni essere umano inevitabilmente attraversa nella propria vita e nell’altro caso aveva scatenato la vitalità popolaresca e lo spirito satirico irrefrenabili della settecentesca Beggar’s Opera, trasportandola nei bassifondi di una metropoli moderna: regie diversissime ma entrambe perfettamente riuscite. Quindi questa volta era forse da mettere nel conto una leggera delusione, perché non era facile per Carsen stesso rivaleggiare con quei due suoi spettacoli.
Un primo problema è che questa volta qualcosa di aprioristicamente ideologico si è insinuato nella sua regia dell’Idomeneo e lo ha spinto a usare il mito antico per raccontare il dramma senza fine che si svolge sulle rive del Mediterraneo, tra guerre, fanatismo religioso, rivalità tribali, migrazioni di massa. L’intento è nobile, i risultati alterni. Benissimo (è un’idea nuova rispetto alla prima edizione di questo spettacolo, andato in scena lo scorso febbraio a Madrid) far impersonare i prigionieri troiani nel primo quadro dell’opera da veri migranti e rifugiati della Comunità di Sant’Egidio, che indossavano più o meno i loro vestiti di tutti i giorni ed erano rinchiusi dietro una rete metallica, come quelle dei campi profughi attraverso cui essi sono effettivamente transitati: oltre a risvegliare un umano sentimento di vicinanza alle disgrazie altrui, così si dà all’aria di uno di quei prigionieri, la troiana Ilia, un significato concreto, che va al di là delle stucchevoli parole del libretto. Benissimo anche trasformare l’azzurro Mediterraneo in un mare dalle acque ferrigne e minacciose, sormontate da un cielo sempre nuvoloso e senza un solo spiraglio luce (video di Will Duke e luci dello stesso Carsen e di Peter Van Praet).
Ma altrove le cose non funzionano più. Che i guerrieri greci – che naturalmente hanno dismesso le corazze e indossano divise moderne - apparecchino le tavole, consumino allegramente il rancio e stappino rumorosamente le lattine di birra, è un’idea non si capisce se ironica o involontariamente comica. Vero è che ciò avviene in un momento drammaturgicamente inerte dell’opera - un intermezzo in cui si susseguono da una marcia, un ballo e un coro in onore di Nettuno - ma certamente l’azione inventata da Carsen per riempire quei pochi minuti fa a pugni con la musica di Mozart, in quel punto solenne e un po’ pomposa. Ma questo è solo un episodio marginale. Quel che non va è la recitazione spesso statica e generica, per quanto ciò possa sembrare incredibile a chi conosce altri spettacoli di Carsen.
In definitiva il vero significato dell’Idomeneo sembra interessare poco al regista, che lo lascia in secondo piano. Né per recuperare lo spirito tragico di questo mito antico imbevuto di principi illuministici è sufficiente collocare alcune scene sotto l’angosciosa riproduzione fotografica di una città del vicino oriente devastata dai bombardamenti: questo realismo non raggiunge il suo effetto, e non soltanto perché purtroppo abbiamo visto tante immagini simili nei telegiornali.
La direzione di Michele Mariotti era pulita, accurata, incline ad una serenità quasi arcadica. Gli splendidi interventi degli strumenti a fiato che arricchiscono questa partitura irta di difficoltà – fu infatti scritta per la migliore orchestra europea di quegli anni e Mozart era evidentemente felice di sfruttare quel magnifico strumento – sono realizzati con cura ma anche con una certa timidezza. In generale si sarebbero desiderati tempi più serrati, maggiori contrasti dinamici e ritmi più incalzanti, che però non fanno parte del Mozart sereno e privo di tragicità che Mariotti sembra prediligere.
Di buon livello le voci. Protagonista il veterano Charles Workmann, nei panni di un militare tutto d’un pezzo alla Clint Eastwood: non solo dà vigore ai recitativi ma affronta le ardue colorature di “Fuor del mare” con notevole sicurezza, nonostante il timbro un po’ usurato dagli anni. È un’esperta mozartiana anche Miah Persson, molto applaudita dopo “D’Oreste, d’Ajace”, cantata con grande veemenza. Sono più giovani e fresche le voci di Rosa Feola (Ilia) e Joel Prieto (Idamante, questa volta tenore e non soprano, perché si è scelta la versione di Vienna), che però inclinano verso stile e toni sentimentali da primo romanticismo. Nei ruoli minori si segnala l’Arbace di Alessandro Luciano.
Applausi tiepidi durante la rappresentazione, più calorosi alla fine.