I suoni bucolici delle Stagioni

Al Bologna Festival, vince e convince l’oratorio di Haydn con celebri complessi olandesi

 Le stagioni di Haydn (Foto Roberto Serra)
 Le stagioni di Haydn (Foto Roberto Serra)
Recensione
classica
Bologna, Auditorium Manzoni
19 Ottobre 2018

Non saremo mai abbastanza grati al Bologna Festival, che con regolare cadenza presenta in città i grandi capolavori del repertorio oratoriale, eseguiti da celebri ensemble europei ai maggiori livelli artistici.

È stata ora la volta dell’Orchestra del XVIII secolo (quella fondata da Frans Brüggen quasi 40 anni fa) e della Cappella Amsterdam (coro che tocca il mezzo secolo di vita), unite per proporre Le stagioni di Haydn: una partitura che, con la sua anomala identità di oratorio profano, trova rara attenzione nei cartelloni concertistici, ma che almeno a Bologna vanta una antichissima tradizione, da quando il diciannovenne Rossini diresse nel 1811 la prima esecuzione italiana.

Con la sua eufonia protratta, a celebrare felicemente i vari aspetti della natura (una sorta di sequel della più nota Creazione dello stesso Haydn), con le sue insistite onomatopee e iconiche imitazioni a rendere in musica i suoni di venti e ruscelli, di insetti e uccelli, di danze e cacce contadine, la partitura scorre col sorriso sulle labbra, contagioso e catartico, fino all’Amen conclusivo.

La concertazione di Marcus Creed ha evidenziato al massimo tutti i giochi sonori, culminanti nella spiccata teatralità della scena venatoria, vivificata da quattro splendidi corni naturali che spuntavano stereofonicamente ai due lati dell’orchestra sostituendo “a vista” le ritorte degli strumenti per adattarsi all’improvviso cambio tonale, fra la divertita curiosità del pubblico più attento. 

Ma l’esordio era stato a suo modo traumatico, con il clamoroso triplice accordo iniziale reso impressionante dalla secchezza dei suoni orchestrali, timpani e ottoni in testa: i timpani duri e gli ottoni aspri con cui da tempo ci viene proposto il repertorio barocco, e le cui sonorità vengono oggi sempre più spesso estese alle composizioni d’inizio Ottocento. 

Fortunatamente le voci che prendono presto il sopravvento nella partitura vantano un vibrato naturale, e contaminano via via gli strumenti verso una sonorità più naturale. Voci splendide in particolare per i tre solisti: Ilse Eerens, soprano purissimo dagli acuti cristallini; Marcel Beekman, tenore capace di padroneggiare come pochi il registro di falsetto; André Morsch, basso di grande morbidezza ed espressività.

Sala non gremita, ma pubblico entusiasta per l’estremo godimento estetico provato in due ore e mezza di musica capace di trascinare anche l’ascoltatore più neghittoso.

 

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