I primi umani fra Bibbia e psicanalisi

L’Opera Nazionale Olandese presenta la rarità Die ersten Menschen di Rudi Stephan nell’ambito dell’Holland Festival

Die ersten Menschen (Foto Ruth Walz)
Die ersten Menschen (Foto Ruth Walz)
Recensione
classica
Amsterdam, De Nationale Opera & Ballet
Die ersten Menschen
25 Giugno 2021

Doveva essere La damnation de Faust ma il progetto scenico e soprattutto la presenza massiccia del coro si è rivelato incompatibile con le misure sanitarie imposte ai luoghi di spettacolo anche in Olanda. E così l’Opera Nazionale Olandese di Amsterdam per la sua produzione nel quadro dell’Holland Festival ha optato per una rarità Die ersten Menschen (I primi esseri umani) diffuso anche in streaming per Arte Opera Season. Si tratta di un “Mistero erotico” scritto da Otto Borngräber a partire dal suo dramma omonimo del 1908, un opprimente intreccio fra le vicende bibliche della famiglia primigenia e pulsioni psicoanalitiche. La musica la compose fra il 1909 e il 1914 Rudi Stephan, uno dei talenti musicali della sua generazione, stroncato dalla pallottola di un cecchino russo soltanto un anno dopo aver completato la sua unica opera, a 28 anni, mentre combatteva con l’esercito tedesco sul fronte galiziano. Si attese la fine della guerra per allestire il lavoro nel 1920 a Francoforte, allora una delle città più aperte alle avanguardie musicali. Dopo la prima, non furono molte le esecuzioni di quest’opera dal soggetto controverso (esistono comunque un paio di registrazioni piuttosto recenti) così come degli altri lavori di Stephan contro il quale si accanì anche la seconda guerra mondiale, durante la quale molti dei suoi manoscritti inediti furono distrutti dal fuoco delle bombe.

Die ersten Menschen narra in maniera trasfigurata e ad alto tasso erotico la vicenda biblica del fratricidio di Chabel da parte del fratello Kajin, entrambi figli di Adahm e Chawa. Se Chabel è pervaso da un senso mistico dell’esistenza, Kaijn sente forte il legame con la natura e l’attrazione per la donna selvaggia. Come il figlio Kaijn, anche Chawa è pervasa da una carica erotica, che il marito Adahm rifiuta. L’attrazione per il figlio Chabel, nel quale la donna riconosce un giovane Adahm, scatena la gelosia cieca di Kaijn, che per la madre prova sentimenti tutt’altro che filiali. Ineluttabile che la vicenda si compia nel sangue: Kaijn uccide Chabel e fugge nel deserto, mentre Chawa e Adahm ritrovano l’unione e guardano con ottimismo ai molti che “verranno ed esisteranno e percorreranno l’immenso mondo.”

Un soggetto di sesso e morte che sembra pane per i denti del regista Calixto Bieito, per la prima volta all’Opera Nazionale Olandese. Se il testo di Borngräber sublima i passaggi più scabrosi in soluzioni poetiche all’insegna dell’allusione, Bieito esplicita e mette in mostra gli aspetti più morbosi e violenti nella scena di Rebecca Ringst che aggiorna l’Eden a contemporaneo e asettico inferno borghese. La vorace sensualità di Chawa (la carnosa Annette Dasch) è esibita fin dalla prima scena: la donna è sdraiata su un tavolo coperto di frutta come in una natura morta fiamminga e con le mani che affondano bramose nella polpa umorosa di quei frutti. Allo stesso modo è esibito l’appetito sessuale dei pargoli, soprattutto di Kaijn (l’istrionico Leigh Melrose), corpo in mostra, fisicità ferina, sempre pronto all’attacco. Anche Chabel (un John Osborn ai limiti delle capacità vocali) abbandona l’allucinato misticismo per capitolare agli ostinati assalti della madre. L’impiegatizio Adahm (un particolarmente cupo Kyle Ketelsen) assiste impotente alla tragedia della sua famiglia.

Sistemati in palcoscenico dietro a un sipario semitrasparente che rimanda ingigantite le immagini della vicenda sul proscenio, la Royal Concertgebouw Orchestra e il direttore François-Xavier Roth traducono in un paesaggio di grande fascino sonoro il complesso e tormentato linguaggio musicale di Stephan che traspira i tardivi miasmi del decadentismo post-wagneriano scossi da fremiti espressionisti. Un sinuoso assolo del corno inglese sul pedale degli archi avvolge subito nelle sue spire l’ascoltatore e lo travolge nel vortice di suoni che cancellano la talora inconcludente verbosità del libretto, trascinandolo fino al visionario trionfo del finale.

Una felice riscoperta.

 

 

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

New York: Pierrot lunaire e Arie da camera di Puccini

classica

Al Teatro Filarmonico debutta l’opera verdiana in un allestimento del Teatro Regio di Parma 

classica

Il pianista a New York