Händel e le donne
“Arminio” e “Semele” nella Quarantesima edizione del Festival internazionale Händel di Karlsruhe
“Arminio” al Festival Händel di Karlsruhe
Appartiene alla tribù dei Catti e dunque germanica Tusnelda, ma potrebbe degnamente rappresentare un campione di quelle virtù che invece difettano ai romani Varo e colleghi. Questi, più che nello slancio bellico, son tutti presi a complottare col collaborazionista Segeste, padre della donna, per liberarsi del generale cherusco Arminio, consorte di Tusnelda ed eroe germanico della battaglia della foresta di Teutoburgo. Tradito da Segeste, Arminio cade in mano nemica ed è condannato a morte, ma lei è incrollabile nella sua fedeltà coniugale nonostante le attenzioni di Varo, che, con una trovata registica un po’ dubbia, la prende con la violenza mentre lei lo supplica “Rendimi il dolce sposo, due vite io ti dovrò”. L’altra donna, Ramisa, sorella di Arminio e legata a Sigismondo, l’altro figlio di Segeste, è invece di tutt’altra pasta, anche se sfodera un certo inatteso temperamento nell’esortare l’amante al riscatto di Arminio. Poco incline ai gesti eroici, Sigismondo si guadagna per questo le rampogne del padre, che lo insulta con un: “Tra i vezzi di costei qui ti trattieni, o effeminato figlio?” mentre lo sculaccia. Il colpo di mano comunque riesce, Arminio riprende il comando, sconfigge i romani, riunisce la famiglia e, con altra dubbia trovata registica, condanna Segeste a morte, con tanto di decapitazione sulla ghigliottina in proscenio. Ghigliottina? Sì, perché le battaglie fra romani e tribù germaniche nell’allestimento di Karlsruhe venivano trasposte nell’Europa di fine Settecento, suggerita nella scena rotante dalle linee essenziali di Helmut Stürmer ma soprattutto nei sontuosi costumi di Helmut Stürmer e Corina Gramosteanu. Con un insolito rovesciamento delle prospettive storiche, la luce della civiltà propugnata delle classi aristocratiche veniva minacciata dall’oscurantismo di scomposte milizie rivoluzionarie dei tagliatori di teste. Regista dell’operazione era Max Emanuel Cencic, anche impegnato nei panni del protagonista Arminio, come già nel 2016, disegnato con attenta introspezione e tratti di composta nobiltà. Molti cambi nel cast rispetto alla scorsa edizione: Lauren Snouffer era una Tusnelda vibrante e di solida tenuta vocale, Aleksandra Kubas-Kruk era un Sigismondo di grazia galante e Gaia Petrone dava vita a una Ramise esuberante e dai tratti simpaticamente stravaganti. Dalla scorsa edizione, si ritrovavano invece l’agile Varo di Juan Sancho, l’estroso Tullio di Owen Willetts e il corposo Segeste di Pavel Kudinov. Si ritrovava anche la qualità strumentale dell’Armonia Atenea guidata dal gusto di George Petrou. E si ripeteva il successo con applausi calorosi e chiamate per la produzione targata Parnassus Arts, ripresa di recente anche a Cracovia e auspicabilmente destinata ad altre tappe future.
“Semele” al Festival Händel di Karlsruhe
Vanitosa e bizzosa l’altra eroina, Semele, la donna che fece innamorare Giove e, per voler diventare immortale, restò incenerita dallo splendore del dio. In questo strano oratorio händeliano, che all’epoca Charles Jennens condannò come “opera oscena”, la figlia di Cadmo, re di Tebe, per volontà dello spiritoso regista Florin Visser, veste i panni della stagista di un presidente USA, donnaiolo impenitente (ricorda qualcuno?). Inevitabimente lui se ne invaghisce e la fa rapire dalle truppe d’assalto quando lei sull’altare sta per dire “sì” al promesso sposo, l’ufficiale dei marine Athamas. Rinchiusa in un luogo di delizia con piscina e cameriere indiano (Cupido), Semele consuma infuocati amplessi presidenziali, mentre la first lady Juno organizza il blitz distraendo l’addetto alla sicurezza Somnus con la pinup del paginone centrale di una rivista per soli uomini. Indotta con l’inganno dalla first lady sotto le mentite spoglie della sorella Ino, Semele mette alle strette President Jove chiedendogli di essere come lui. Lui cede, nemmeno troppo a malincuore, e la molla in pasto ai flash dei paparazzi che la inceneriscono “quasi” come da libretto. L’aggiornamento del mito in salsa sesso e potere stile “House of Cards” funziona senza intoppi e diverte davvero. La scena di Gideon Davey, che riprende le linee classiche del Pantheon romano, è uno sfondo perfetto alla solennità neoclassica delle architetture istituzionali americane. Se gli interpreti sembravano rispondere soprattutto a esigenze di casting adeguate allo standard cinematografico della regia, nessuno deludeva sul piano musicale: Jennifer France era una Semele fresca e accattivante, Ed Lyon un Giove spavaldo e virile, Katharine Tier una Giunone virago con ironia, Terry Wey un Athamas languoroso quanto vanesio, Dilara Baştar una Ino determinata, Edward Gauntt un Cadmo senilmente autorevole, e anche i ruoli minori funzionavano con Hannah Bradbury (Iris), Yang Xu (Somnus) e Ilkin Alpay (Cupid). Impeccabile nella sua compostezza britannica l’esecuzione musicale diretta da Christopher Moulds alla testa dei Deutsche Händel-Solisten di straordinaria opulenza sonora. Di grande rilievo anche la prova del neonato Händel-Festspielchor, la felice novità dell’edizione 2017 del festival händeliano.
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