A Francoforte va in scena l’Aida della crudeltà
Dopo oltre quarant’anni l’opera verdiana torna all’Opera Frankfurt in un deludente allestimento
Era il febbraio del 1981 quando l’Oper Frankfurt conobbe la più clamorosa contestazione nella sua storia recente. L’opera era Aida, la regia affidata a un giovane Hans Neuenfels da Michael Gielen, allora sovrintendente e direttore musicale del teatro e anche sul podio in quell’occasione. La tensione cominciò già nel pomeriggio con un allarme bomba, rivelatosi poi infondato. E poi la serata, come da attese, fu tempestosa, tanto che ci volle la determinazione di Gielen per portare a termine la recita fra gli schiamazzi del pubblico. Vedere Aida non con i soliti costumi esotici ma armata di secchio e spazzolone non andò proprio giù a buona parte del pubblico. L’allora Dramaturg capo Klaus Zehelein, recentemente premiato con il Faust alla carriera, lo spiega così: “Penso che gli scandali derivino da un certo atteggiamento del pubblico, che potrebbe essere descritto come “Conosco bene quest’opera. So come può funzionare, l’ho già vista molte volte”. E se questa aspettativa non viene soddisfatta, allora può nascere lo scandalo.” Qualcuno considera quell’evento una pietra miliare nell’interpretazione dell'opera moderna, mentre per altri è l’inizio ufficiale del teatro di regia alla tedesca o, come qualcuno preferisce, dell’Eurotrash.
A Francoforte ci sono voluti più di quarant’anni per superare quel trauma. Ma se è apprezzabile voltare pagina e abbattere il tabù, non è affatto chiaro perché recuperare un allestimento vecchio di 11 anni e per di più prodotto da un teatro lirico non di primo piano come quello di Heidelberg. Almeno alla prima, anche questa Aida, rimessa a nuovo come strenna natalizia, ha provocato sonore contestazioni, che smentiscono la diagnosi di Zehelein dopo quattro decenni nei quali sulle scene liriche si è visto un po’ di tutto. Persa ormai da tempo la spinta innovatrice di regie che giustamente volevano rompere con le incrostazioni del tempo, l’allestimento firmato da Lydia Steier sembra piuttosto animato dall’intenzione di stupire e produrre scandalo ad ogni costo, anche inanellando insensatezze che sfiorano spesso il comico. I richiami all’antico Egitto restano solo nel libretto di Ghislanzoni, mentre la scena fissa di Katharina Schlipf rappresenta un grande salone con le pareti coperte di piastrelle sbrecciate, grandi porte e due grandi lampade déco a incorniciare la porta di quella che si può immaginare essere una camera di tortura. L’impressione è quella del gelido squallore della villa del Salò pasoliniano.
Anche qua Aida è una donna di servizio con un caschetto di capelli neri, che si scoprirà essere una parrucca, la stessa di tutte le schiave rasate per donare i capelli sbiondati della collezione di biondissime parrucche di Amneris, vestita come una diva del cinema degli anni ’40 (i costumi sono di Siegfried Zoller). Su quelle povere donne (qualcuna comprensibilmente manifesta segni di squilibrio) la figlia del re sfoga tutta la sua crudeltà, come anche la bizzarra comunità di vecchi militari decrepiti, che si diverte a martoriare i prigionieri di un qualche imprecisato conflitto. Preceduta da suoni di bombardamenti aerei nella sala completamente immersa del buio, nella scena del trionfo si assiste all’orgia del potere: un gruppo di poveri disperati viene fatto spogliare e gettato nella piscina per il ludibrio dei potenti, mentre un re, altrettanto decrepito, assiste immobile dall’alto. Un rilievo del tutto speciale è assegnato a Ramfis, drogatissimo e con frequenti crisi allucinatorie, che di quella comunità è il gran cerimoniere, probabilmente attratto da Amneris, che però vive solo per Radames, qui anche ridotto a inserviente promosso a generale per il capriccio dei potenti. E via così fino all’epilogo, con Radames sanguinante incatenato alla parete della camera di tortura in compagnia di Aida sparruccata, e Amneris pietosamente “suicidata” tramite iniezione letale (morfina?) da Ramfis. Dissennatezze giovanili a parte, resta un certo gusto visionario e la mano della regista di razza, destinata un decennio dopo a spettacoli ben più solidi.
Sul piano musicale le cose non vanno molto meglio. La direzione di Erik Nielsen ha qualche bel momento, ma sono solo delle piccole oasi in un sostanziale deserto di idee. Se la Frankfurter Opern- und Museumorchester si salva è solo per la grande professionalità dei suoi musicisti e specialmente delle sue prime parti, che regalano qualche lussuoso assolo. Si salvano meno i solisti in scena assemblati non si capisce davvero come. Una certezza è che di voci verdiane non c’è proprio traccia. La protagonista Ekaterina Sannikova almeno ha l’attenuante di aver sostituito in corsa la titolare Guanqun Yu, vittima alla prima di una frattura causata da scivolamento nella piscina dei potenti in scena (crudeltà involontaria ma autentica): c’è molto impegno ma la voce proprio non vola. Non va molto meglio al Radames di Stefano La Colla, piuttosto impreciso nell’emissione e nell’intonazione, né all’Amneris di Claudia Mahnke, come sempre vocalmente affidabile ma totalmente priva di colori. Non è male invece il Ramfis di Andreas Bauer Kanabas, il solo che sembra a proprio agio in questa infelice produzione, e l’Amonasro di Nicholas Brownlee, buoni mezzi vocali che beneficerebbero di un maggiore controllo. Sufficienti gli altri, ossia il re di Kihwan Sim, il messaggero di Kudaibergen Abildin, e soprattutto la sacerdotessa (invisibile) di Monika Buczkowska.
Pubblico folto ma freddo durante la recita, con qualche isolata protesta a scena aperta. Applausi finali.
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