Francoforte chiude con “La juive”

L’Oper Frankfurt presenta in chiusura di stagione un nuovo allestimento dell’opera di Halévy con John Osborne formidabile protagonista

La juive (foto Monika Ritterhaus)
La juive (foto Monika Ritterhaus)
Recensione
classica
Francoforte, Oper Frankfurt
La juive
16 Giugno 2024 - 14 Luglio 2024

Chiusura in grande per la lunga stagione dell’Oper Frankfurt, che sceglie un grand opéra come La juive di Jacques Fromental Halévy, titolo non troppo frequente soprattutto per l’impegno produttivo richiesto ma che nelle ultime stagioni si è visto in più di un teatro d’opera. La vicenda, infatti, ha più di un aggancio alle tragiche vicende del secolo passato, una ferita difficilmente rimarginabile in Germania, ma inevitabilmente riverbera anche le eterne tensioni che hanno visto e vedono esponenti dell’ebraismo protagonisti di fatti di sangue. Ciò detto, di questi fatti o di prese di posizioni politiche non c’è traccia nella nuova produzione dell’opera di Halévy vista all’Opernhaus di Francoforte. La regista Tatjana Gürbaca, invece, astrae la vicenda da qualsiasi aggancio all’attualità (non è mai scontato da queste parti) e impiega il proprio consueto repertorio di situazioni che, restando solidamente nell’alveo di una narrazione del plot tutto sommato letterale, insistono piuttosto su una chiarezza pesantemente didascalica, azzerando qualsiasi sfumatura nel disegno dei personaggi della cupa vicenda dell’orafo ebreo Eléazar e della figlia Rachel negli anni del Concilio di Costanza e della feroce repressione dell’eresia hussita.

Lo spazio unico disegnato da Klaus Grünberg non ha alcuna connotazione temporale trattandosi di una struttura di segno neutro, fortemente rastremata come l’interno di una torre in prospettiva, con diverse aperture su tre livelli e gradoni digradanti dal fondo verso il palcoscenico. Volendo, in tempi di bilanci magri per la cultura, tale struttura potrebbe pure essere impiegata come contenitore scenografico per una qualsiasi altro titolo. Piuttosto generici sono anche i costumi di Nadja Krüger, funzionali al processo di semplificazione didascalico, un autentico accrocco di stili e epoche senza una linea precisa. Ad esempio, l’umiliazione di Rachel da parte della principessa tradita Eudoxie passa per una vistosa tenuta da prostituta – pelliccetta sintetica rossa, seno generoso in bella vista e calze nere a rete – offerta dalla seconda alla prima che accetta, inspiegabilmente, anche di indossarla senza battere ciglio (a spese della sua reputazione già minata dal suo essere ebrea a Costanza). Non va meglio a Eléazar, al quale nel pogrom del sottofinale viene imposta una tenuta da clown dai potenti del Concilio vestiti con abiti dalle vaghe fogge rinascimentali (mentre il Cardinal Brogli indossa un doppiopetto da uomo d’affari) e dagli abitanti di Costanza, agghindati come in un incubo pittorico alla Ensor. Nell’esposizione della vicenda, non manca nemmeno una buona dose di corrivo sarcasmo, concentrata soprattutto sulla figura del fedifrago Léopold, eroe cristiano tutto di un pezzo o quasi (’eccezione essendo l’amore per Rachel) sfottuto a dovere in un film che sostituisce il previsto momento coreutico degli immancabili balli del terzo atto. Insomma, se tutto ha da essere chiaro e perentorio in questo allestimento, l’obiettivo è pienamente centrato con buona pace per chi invece in quest’opera, tutt’altro che manichea, amerebbe magari qualche sfumatura in più.

Sul piano musicale, questa Juive può contare su un Eléazar davvero da manuale come John Osborne, ultimo di una schiatta tenorile che annovera tutte le grandi voci del XX secolo a partire da Enrico Caruso: eleganza di fraseggio, emissione mai forzata, timbro radioso, mentre la prestazione attorale è più debole (ma su questo la regia latita pressoché completamente concentrandosi sulla “big picture”). Accanto a lui, se la cavano piuttosto bene le due primedonne rivali, che sono Ambur Braid come Rachel e Monika Buczkowska come Eudoxie: la prima calca fin troppo la mano sul piano dell’interpretazione anche scenica ma la linea di canto è impeccabile e solida, mentre la seconda è molto sicura nelle vaporose colorature riservate alla nipote dell’Imperatore da Halévy. Convince meno Gerard Schneider, che è un Léopold piuttosto legnoso anche se con le carte in regola per un ruolo che sollecita uno sforzo vocale importante (e, di nuovo, in sua difesa andrà detto che un certo accanimento della regista sul personaggio non lo aiuta per niente). Assolvono degnamente i rispettivi ruoli Simon Lim, un Brogni fin troppo sbilanciato sul piano patetico, Sebastian Geyer, il prevosto Ruggiero fin troppo esagitato, e Danylo Matviienko, il sergente Albert che si fa notare più per presenza scenica che per quella vocale. Buona la prova del Coro dell’Oper Frankfurt, preciso ma non troppo per colpa (anche) della sollecitazione registica a movimenti sfrenati e scomposti. In buca la bacchetta di Henrik Nánási guida la Frankfurter Opern- und Museumorchester con grande foga ma anche buon senso dello spettacolo, con l’indubbio pregio di lasciar esprimere le voci come occorre nel grand opéra, che è soprattutto teatro di voci.

Sala piuttosto gremita nella penultima recita prima della chiusura estiva. Grande successo. Appuntamento a settembre con un altro dramma storico, Il principe di Homburg di Henze.

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