Forlì, musica aperta (veramente)
La terza edizione di Forlì Open Music accentua gli aspetti più coinvolgenti della ricerca e confronto tra i linguaggi, con Arditti, DKV, Kyriakides&Moor, The Necks...
Spesso pensiamo alle visioni programmatiche di festival e rassegne musicali amplificate da titoli e parole d’ordine più o meno d’effetto, come piste alle quali non dare molto peso.
A Forlì abbiamo verificato invece, in occasione della terza edizione di Forlì Open Music, che Musica Aperta non è un concetto generico ma reale esigenza culturale. Bastava leggere il programma. Ma soprattutto essere lì, nella eccitante due giorni nello splendido spazio della Chiesa di S. Giacomo. Che da quelle parti dietro a un programma del genere, che va da Debussy a Sciarrino, dai DKV a The Necks, ci fossero le menti illuminate di Area Sismica era quasi scontato. A Forlì la musica è stata veramente aperta, con rischi e problematiche connesse ma l’effetto è stato bellissimo. Incredibilmente pubblici diversi e generazionalmente trasversali si sono affiancati, annusati, conosciuti scoprendo che le passioni non sono scatole chiuse ma spazi senza confini, che improbabili collisioni sono possibili.
La suite per due pianoforti En Blanc et Noir (1915) di Debussy è un’opera scintillante in continuo movimento nel montaggio di lampi, invenzioni melodiche atematiche, che nella ricerca della bellezza e del piacere rimangono magicamente sospese nello spirito e nella sensibilità tutta francese di quel periodo. Enrico Pace e Igor Roma nella cura del dettaglio, di suono e gesto evidenziano, fanno emergere la filigrana luminosa della composizione. Proponendoci a seguire la versione per due pianoforti della nota suite sinfonica The Planets Op.32 (1914-16) di Gustav Holst è come se ci venisse richiesto un ravvicinato confronto. Al di là della fascinazione astrologica, la coinvolgente ricerca timbrica e una complessa elaborazione armonica, nel descrittivismo e nella suddivisione in rigidi ambiti tematici il compositore inglese soffre molto rispetto alla poetica estetica del francese.
Anche il grande Irvine Arditti ci costringe se vogliamo a un confronto tra Einspielung I (1979) di Emmanuel Nunes e i 6 Capricci (1976) di Salvatore Sciarrino. Entrambi i compositori trascinano a modo loro la forma capriccio nella contemporaneità per esplorare attraverso virtuosismi estremi le possibilità espressive del violino. In uno dei momenti più alti della rassegna forlivese il violinista inglese ci trasporta in un viaggio nel suono unico. La trama del portoghese è fatta di specchi, di labirinti ritmici, ma anche riflessioni e visioni. Sciarrino spinge tutto più là, ai confini della realtà. Quei suoni non sappiamo da dove vengano, risultato del gioco di armonici vaganti e notazioni complesse, uso del rumore, diteggiatura e colpi sulla tastiera, corde strusciate, sibili, fruscii e cigolii. Arditti inarrivabile. Meraviglie.
La chiusura della prima serata di Forlì Open Music con DKV (Amid Drake batteria, Kent Kessler contrabbasso, Ken Vandermark sax+clarinetto) è jazz e ci porta sui lidi di un post-free forse un po' edulcorato ma sempre di grande presa. È Vandermark che guida, che sceglie con le su ance, spesso graffianti e spasmodiche, un fraseggio più morbido e caldo che evoca Shepp e Rollins cercando spunti melodici per poi smontarli nell’improvvisazione. Drake è la batteria jazz e lo dimostra sempre, il suo è il ritmo della vita, della terra, sempre dentro la musica senza mai ripetere una figurazione. Il contrabbasso di Kessler, anche se a volte penalizzato dai volumi degli altri, è stato una piacevole sorpresa, suono denso e pulsione vitale. Grande trio, è mancato solo un pizzico di coraggio in più.
Il duo Yannis Kyiriakides (elettronica) e Andy Moor (chitarra elettrica) ci immerge in un suggestioni sonore di notevole impatto. Moor distorce la chitarra in cento modi diversi, usando oggetti sulle corde, appoggiandola sull’ampli, scuotendola. Tutta questo materiale garantisce un sottofondo costante ed estraniante sul quale Kyriakides a sua volta costruisce ed elabora allucinazioni sonore, spargendo rumore e pulviscolo elettronico estremo. I due paiono ignorarsi per tutto il set ma la complicità è totale.
Il contrasto con il trio australiano The Necks che li segue è stridente. Si passa dalla saturazione dello spazio sonoro a una musica quasi ferma, che si guarda. Chris Abrahams pianoforte, Lloyd Swanton contrabbasso e Tony Buck batteria hanno carisma da vendere, gruppo cult a livello planetario con una storia trentennale alle spalle, sulla coerenza stilistica inattaccabili. The Necks usano la formula del classico jazz piano trio come laboratorio dove dilatare brevi e ripetuti nuclei accordali arpeggiati dal pianoforte e fatti roteare con impercettibili variazioni e quasi nessuna accelerazione sul fronte ritmico. Contrabbasso e batteria si muovono autonomamente. Swanton alterna il pizzicato all’archetto senza mai offrire supporto, con un suono neutro spesso quasi spiacevole. Buck sfiora pelli e piatti, mantenendo costante l’uso della bacchetta sul charleston che trasfigura in una forma rituale. Un set di oltre quaranta minuti che lascia molti dubbi sui limiti di una formula un po' vuota tra minimalismi e autoreferenzialità.
Ma Forlì Open Music punta in alto non solo avvicina mondi sonori lontani ma li vuole mischiare. Open Border è l’evento finale, progetto originale che vede le ance di Vandermark e le percussioni di Drake, due jazzisti dialogare con protagonisti assoluti della contemporanea italiana come Luigi Ceccarelli all’elettronica e Gianni Trovalusci ai flauti. Un incontro in buona parte riuscito quando i musicisti hanno cercato punti di incontro possibili cedendo parte del loro bagaglio per avvicinarsi all’altro. Vandermark ritrova il suo linguaggio più radicale fatto di strappi, Drake limita l’aspetto etnico e sviluppa suoni isolati. I flauti e i tubi sonori di Trovalusci alternano fascini ancestrali a visioni contemporanee, l’elettronica di Ceccarelli ha il merito di gestire, dilatare, rilanciare tutti i materiali messi in gioco con notevole senso della forma. Il breve bis si apre con la voce sciamanica di Drake che stimola una frase dal sapore dolce di un mantra del sax subito affiancato dai flauti. Finale migliore non si poteva.
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