Focus Verdi
Parma: la conclusione del Festival
La programmazione operistica, dopo “Don Carlo”, “Giovanna D’Arco” e “I masnadieri”, ha proposto una nuova produzione del “Trovatore” che, alla prima del 21 ottobre, è stato accolto con esito contrastato, tra gli applausi della platea e i dissensi piovuti da un loggione che negli ultimi tempi pareva aver alquanto smussato il suo proverbiale spirito critico. L’allestimento ha effettivamente presentato luci e ombre, a partire dalla regia di Elisabetta Courir che ha immerso l’azione in un’atmosfera oltremodo scura, plumbea, nella quale le differenti ambientazioni che fanno da sfondo allo svolgersi della narrazione scenica venivano rievocate, almeno nelle intenzioni, da alcune gradinate di legno nero, spostate di volta in volta ottenendo comunque un risultato un po’ anonimo e poco efficace. Un contesto nel quale si collocavano i movimenti di personaggi in scena, intrecciati con gli altri movimenti di mimi presenti al fianco dei protagonisti, una sorta di alter ego un poco ridondanti. Caratteri che si confrontavano altri elementi alquanto isolati – un giglio “volante” che finisce nelle mani del Conte di Luna – o del tutto assenti – il fuoco, le incudini della “pira” – che hanno segnato uno sfondo drammaturgico sul quale si è innestato un quadro musicale poco lineare. Da un lato la buona prova del coro preparato da Martino Faggiani ha rappresentato un solido binario sul quale ha avuto modo di scorrere l’opera, assieme alla Azucena di Enkeleida Shkoza, restituita con una personalità e una costanza che le ha valso un bel successo personale. Dall’altro lato troviamo la direzione di Massimo Zanetti, il quale ha guidato i cantanti e la Filarmonica Toscanini con un passo del quale si faticava a decifrare la coerenza rispetto ai caratteri dei differenti quadri drammaturgico-musicali. Nel mezzo gli altri interpreti, tra i quali il Conte di Luna di George Petean, il Manrico di Murat Karahan e la Leonora di Dinara Alieva, tutti protagonisti di un impegno funzionale ai rispettivi ruoli.
A fianco del cartellone operistico il festival ha proposto alcune oasi sinfoniche, tra le quali abbiamo seguito il concerto dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da James Conlon che, il giorno seguente la “prima” del Trovatore ha proposto un impaginato che affiancava i “Ballabili” dall’Otello e dal Macbeth, con l’aggiunta del Preludio al primo atto di quest’ultima opera, alla Sinfonia n.5 in do diesis minore di Gustav Mahler. Un programma eseguito con una cura per i dettagli e gli equilibri timbrici che hanno valorizzato alcune sottigliezze delle pagine verdiane, oltre a rendere con coerenza e intensità davvero efficaci la partitura del compositore viennese.
Un altro programma collaterale al festival era quello rappresentato da “AroundVerdi”, ideale contenitore che riuniva proposte, anche molto differenti tra loro, liberamente ispirate alla figura e all’opera del cigno di Busseto. Da un lato spettacoli come quello commissionato a Vinicio Capossela (6 ottobre), impegnato a rovistare nella memoria alla ricerca di ricordi e profumi verdiani legati alla sua frequentazione della città Parma, degli angoli del suo centro storico e delle ragazze che li abitavano alcuni istanti per poi sparire (“Scivola vai via”), finendo poi per salire sulla sua barca – di legno come il teatro Farnese che la ospitava – e prendere il largo con “Il grande Leviatano” e con tutto il mondo che gira attorno ai “Marinai, profeti e balene”.
Dall’altro indagini drammaturgiche come l’intensa e straniante “Autodafé”, installazione site specific che Lenz Fondazione ha creato per il Festival Verdi 2016. Ispirata al terzo atto del “Don Carlo” verdiano, l’installazione è stata allestita in prima assoluta il 15 ottobre nell’antico carcere napoleonico di San Francesco con la regia, l’installazione site specific, i costumi e gli elementi plastici di Maria Federica Maestri, la drammaturgia di Francesco Pititto e il disegno sonoro di Andrea Azzali. Una dimensione rappresentativa che ha inteso rielaborare la scena in cui sfilano gli eretici condannati a morte, che Verdi mise sullo sfondo della sua opera, incentrata sullo scontro pubblico tra Filippo II e il figlio Carlo. Il tutto distribuito tra i corridoi, le stanze e il cortile dell’antico carcere di Parma, dove i personaggi – attori e cantanti – si muovevano tra pareti rese pesanti da una storia drammatica, animate da proiezioni di volti deformati, e celle che evocano un dolore che non ha tempo. In questo ambiente il pubblico si muoveva liberamente, tra i riti dell’Inquisizione, resi astratti e allo stesso tempo incombenti dall’azione scenica, si mescolavano con frammenti dell’opera di Verdi, in una miscela originale e densa di significato.
Un’altra commissione del festival è stata quella che il 29 ottobre ha portato al teatro Farnese Uri Caine, con un progetto titolato “Family ties” sempre ispirato al Don Carlo verdiano. Qui il pianista americano si è avvalso di un originale gruppo strumentale formato da Mark Helias al contrabbasso, Jim Black alla batteria e dal quintetto composto da Luca Falasca violino primo, Matteo Marzaro violino secondo, Flavio Ghilardi viola, Leonardo Sapere violoncello, Rino Braia contrabbasso. I “legami familiari”, ispirati dal rapporto tra Don Carlo e il padre, hanno trovato forma di una sequenza di brani che alternavano reinterpretazioni di frammenti dell’opera, dove emergevano riconoscibili melodie più o meno famose – “Ella giammai m’amò” o “Tu che le vanità” – a spazi improvvisativi più estemporanei, che specie nella dimensione del trio piano-contrabbasso-batteria raccontavano di un jazz dal gusto tendenzialmente mainstream. Un’operazione piacevole, che ha soddisfatto il pubblico presente, ma che non ha raggiunto l’intensità e l’originalità di altre riletture del repertorio classico operate in passato dallo stesso Caine.
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