Florez a Palermo, cronaca di un trionfo annunciato

Al Teatro Massimo un concerto con arie da Rossini a Puccini e tanti bis con canzoni napoletane e spagnole

Juan Diego Flòrez (Foto Franco Lannino)
Juan Diego Flòrez (Foto Franco Lannino)
Recensione
classica
Teatro Massimo, Palermo
Juan Diego Flòrez
21 Ottobre 2021

“Bentornato!”, “Sei unico!” e altre dimostrazioni di affetto e ammirazione punteggiano il concerto di Juan Diego Flòrez, che torna a Palermo dopo ventuno anni. Però nemmeno per lui i palermitani mettono da parte il loro spirito puntuto, cosicché quando risponde al calore del pubblico con: “Sono felice di essere qui”, una voce subito replica: “E allora torna più spesso”, ma lui si salva con prontezza: “È un primo passo”. Se tra il cantante e il pubblico s’instaura un dialogo così aperto, come tra amici, significa che si è creato un feeling speciale. Certe volte però può anche significare che si è scaduti nel divismo a buon mercato. Ma non è certamente il caso del concerto al Teatro Massimo, perché Flòrez non è venuto a vendere fumo e ha conquistato il pubblico con un programma serissimo e molto impegnativo.

Inizia con due arie di Rossini, una dal Signor Bruschino  e una dalla Semiramide. Nonostante negli ultimi anni il suo repertorio si sia molto ampliato in direzione del tardo Ottocento, Rossini resta nel suo DNA, la voce è sempre luminosa e flessibile, le agilità sono perfette e gli acuti (nellaSemiramide, perché la prima aria non è impegnativa da questo punto di vista) facili e squillanti.

Poi si passa a Donizetti. L’ingenuo amore e la tenera malinconia di Nemorino nella “Furtiva lagrima” sono assolutamente nelle corde di Flòrez, che riesce sempre a coinvolgere l’ascoltatore con interpretazioni spontanee e dirette, totalmente prive di affettazione. Si cambia di atmosfera con la tragica scena finale della Lucia di Lammermoor: il suo Edgardo è nudo e indifeso nel suo dolore, tanto più straziante proprio perché evita ogni forzatura melodrammatica.

All’inizio della seconda parte passa all’opera francese, cominciando dalla Jerusalem,  il primo grand opéra  di Verdi:  la relativamente poco nota aria di Gaston fu scritta per Gilbert Duprez, quindi non è uno scherzo per qualunque tenore, ma Flòrez la fa sembrare facile. L’ampia parentesi francese prosegue con “Pourquoi me réveiller” dal Werther  di Massenet e “Salut! Demeure chaste et pure” dal Faust  di Gounod. In queste famosissime arie dell’opéra lyrique  francese Flòrez deve confrontarsi con tanti celebri tenori, da cui si distingue perché non pende verso lo stile elegante e un po’ congelato di alcuni né verso il patetismo un po’ ostentato di altri. Questo repertorio è adattissimo a Flòrez, che non apre mai i suoni, non spinge, non cerca effetti plateali, dosa ogni nota. E anche il suo timbro leggermente nasale è perfetto per la fonetica francese.

La seconda parte si chiude con Puccini: chi l’avrebbe mai immaginato fino a qualche anno fa! Invece anche Puccini gli calza a pennello. Lo si capisce già da “Torna ai felici dì” dalle giovanili Villi, ma la grande sorpresa è “Che gelida manina”: Rodolfo è proprio così come lo canta lui, un giovane studente folgorato dall’amore improvviso per una ragazza.

Il pubblico è in pieno delirio e Flòrez ringrazia con una serie di bis che da sola dura ben più di mezz’ora. Prima canta “Torna a Surriento” con l’orchestra, poi imbraccia la chitarra e si accompagna da solo in “Core ‘ngato”, “Besame mucho” e “Cucurucù paloma”. Per “Granada” ritorna l’orchestra. Ma quando come sesto bis l’orchestra inizia “Nessun dorma”, la prima reazione è: “Questo è troppo, non ce la può fare”. Invece Flòrez la canta con la sua voce, senza gonfiare le gote, e ne offre un’interpretazione intima, ricca di delicate sfumature: il risultato è sorprendente, quest’aria celeberrima non era mai sembrata così bella e si vorrebbe sentirla cantata sempre così.

Al travolgente successo di questo concerto hanno dato un grande contributo l’Orchestra del Teatro Massimo e il direttore Jader Bignamini, che ha accompagnato con attenzione il protagonista (per esempio, tenendo l’orchestra leggera e trasparente nella Turandot) ma ha dato piena dignità anche all’orchestra in ogni brano, non confinandola in un ruolo subalterno. Bignamini ha anche diretto quattro pezzi per sola orchestra. Due erano notissimi, le sinfonie della Semiramide  e del Don Pasquale,  mentre è stata quasi una scoperta la “Tregenda” da Le Villi,  dove Bignamini ha messo in luce la grande padronanza della scrittura orchestrale da parte del giovane Puccini. Totalmente sconosciuta – almeno al sottoscritto – era l’ouverture da Le roi de Lahore  di Massenet, una pagina effettistica di grande soddisfazione sia per il pubblico che per il direttore e l’orchestra, a cui ha dato l’occasione di mettere in mostra tutte le sue qualità.

 

 

 

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