Etétrad, la rivoluzione permanente della musica popolare
Reportage da Etétrad, il festival valdostano che ogni anno reimmagina la musica tradizionale
Ammesso che la tradizione esista e non sia “semplicemente” una finzione condivisa, per altro non meno reale, non può esistere tradizione senza una continua trasformazione, capace di stare alla larga da insulse cristallizzazioni folkloristiche. Questo il fondamentale messaggio veicolato da Etétrad, che si è svolto anche quest’anno nel Comune di Charvensod, nell’area verde di Plan Felinaz, sotto i tremila metri della piramidale Becca di Nona, e che è giunto quest’anno alla sua ventiduesima edizione.
Una rassegna sempre più aperta alle tante musiche del mondo, non solo a quelle tradizionali provenienti dalla vasta area francofona e occitana, con ghironde, violini ed organetti diatonici sempre in primo piano.
Una manifestazione che ogni anno si compie grazie al lodevole impegno dell’Associazione Culturale Etétrad, presieduta da Paolo Dallara, grande animatore del folk italiano, leader degli Stygiens (in scena anche questa volta), coadiuvato alla produzione del Festival dal lavoro infaticabile della consorte Hélène Impérial; e del poliedrico e carismatico direttore artistico e multi strumentista Vincent Boniface, coraggioso erede, insieme al fratello Rémy, di una valorosa stirpe di trovatori e ricercatori valdostani di Aymaville, i Trouveur Valdotèn, che proprio quest’anno hanno compiuto i loro primi quarant’anni di prestigiosa attività, festeggiati con un emozionante e intenso concerto, che ha visto riunita sul palco tutta la famiglia Boniface (Sandro, Rémy e Vincent al servizio della voce commovente, un vero e proprio “albero di canto”, dell’autorevole Liliana Bertolo).
A Etétrad 2019 abbiamo assistito alla consueta, festosa ed effervescente esplosione di suoni e colori, in una pirotecnica e coinvolgente cinque giorni di musiche e danze, un profluvio di eventi e iniziative, un inno allo stare insieme (anche fino all’alba), nella quale le musiche popolari hanno ancora una volta avuto modo di rigenerarsi nella sperimentazione intelligente e nella contaminazione tonificante, e vivere così una sorta di eterna, plastica e necessaria “primavera di bellezza”.
Abbiamo, tra le molte cose, avuto l’occasione di ricordarci di come siano stati gli arabi a introdurre alle nostre latitudini la maggior parte degli strumenti a corda – a questo proposito suggestiva la collaborazione tra Vincent Boniface e l’iracheno in esilio, parigino d’adozione, Fawzy Al-Aiedy, ottimo vocalist dal timbro pulviscolare e soprattutto virtuoso del liuto arabo, nell’intrigante e ritmato progetto dal respiro multiculturale Ishtar Connection – e come per esempio sia possibile confrontare il profilo melodico di certi radif con alcune melodie delle danze provenienti dalle nostre valli di lingua d’oc (più saracene di quanto si possa pensare, come dicevano qualche stagione fa i Tendachent di Maurizio Martinotti).
A raccontarlo è stato l’istrionico organettista Simone Bottasso (sorta di iperbolico rocker del suo strumento), nel presentare con emozione le musiche del recente album Biserta. Un lavoro realizzato non solo in comunione con il fratello Niccolò (a violino e lirico flicorno), ma anche con il virtuoso suonatore iraniano di tar Reza Mirjalali, e non da ultimo impreziosito dal talento immaginifico del sound designer Simone Sims Longo.
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Con lo studioso e appassionato di cultura occitana, il professor Diego Anghilante, originario di Sampeyre in Val Varaita, che a Etétrad ha presentato il suo “provocatorio” volume Grido e contro grido. Il canto popolare raccontato dal di dentro (Araba Fenice), abbiamo poi scoperto di aver perso il piacere e l’abitudine di cantare (persino i luoghi in cui poterlo fare), la consuetudine di abbandonarci a una polivocalità genuina, spontanea, compartecipe e corroborante, priva di particolari sofismi o tecnicismi polifonici, anche se di certo non sprovveduta, e però densa e profonda, intimamente umana, che era invece tipica della sepolta, anche gridata e maggiormente comunitaria civiltà contadina.
Le nostre stesse voci, in quest’epoca di mutismo tecnologico, di scarsa confidenza con una reale comunicazione che metta in vero contatto l’anima delle persone, proprio perché non più sufficientemente allenate, pare abbiano addirittura perso il carattere, il vigore, la forza e la profondità di un tempo.
E però è stato il nutrito e scenografico Coro Bajolese, sostenuto dalle premurose note di Rinaldo Doro a organetto e harmonium – coro attivo fin dalla metà degli anni Sessanta a Bajo Dora, nel Canavese, la patria del primo grande ricercatore di canto popolare in Italia, Costantino Nigra – a risollevare in questo senso gli animi con tutta la sua intelligente e saggia ironia, a ricordarci che è ancora possibile riappropriarsi della propria storia, riattivare “nobili” consuetudini, tornare ad avere familiarità con musiche e parole, solo in apparenza perdute o dimenticate.
Abbiamo, quindi, assistito ad alcuni grandi concerti di folk mediato e progressivo (con un utilizzo sempre più esaltante e spregiudicato di organetti diatonici, ghironde, cornamuse), in perfetto equilibrio tra ricerca musicale e consueto sviluppo (invece) di vellutate melodie, tutte articolate per accompagnare i balli fluttuanti della tradizione occitana sul morbido parquet, magica e carezzevole superficie “aerea”, imprescindibile anima lignea di Etétrad, sulla quale viaggiano veloci e leggere le onde sonore.
Stiamo soprattutto pensando alla grazia ancestrale e battagliera dello straordinario quintetto bretone Hamon Martin (di loro abbiamo ancora in mente l’interminabile e avvincente esecuzione finale della misteriosa ed arrembante "Zim zoum zad"), capitanato dal virtuoso suonatore d’organetto Janick Martin e dal talento di Erwan Hamon a flauti e bombarda, non dimenticando la classe e la sorprendente resistenza del vocalist Matthieu Hamon, fratello di Erwan, al suggestivo e atavico canto gaelico; e allo sperimentale, ipnotico ed elegante balfolk “canterburyiano”, così intriso di jazz, rock (in alcune delle sue espressioni) e ritmi di derivazione africana d’oltre Atlantico, de La Machine, con sugli scudi, prima ancora del moderno e ispirato impasto tra una ghironda sempre sontuosamente filtrata (quella suonata dall’eccezionale Grégory Jolivet) e della cornamusa, tipica delle regioni del centro Francia, imbracciata dal metafisico e svaporato Julien Barbances, l’estro straripante e spettacolare del dinamico contrabbassista e conduttore Jean-Laurent Cayzac, specie di Henri Texier dell’odierno balfolk d’oltralpe; ma anche alla tintinnante e ariosa musica bretone e più in generale nordico francese, infarcita di incantevoli influenze québecoise (con tanto di tip tap sulla tavola battente), degli Ormuz o della più tribale e intensa, oltre che progressiva e maggiormente improvvisata, esibizione del terzetto d’arte (potremmo definirlo così) Feule Caracal, caratterizzato dal serrato e fantasmagorico intreccio tra le fisarmoniche diatoniche (come sarebbe più corretto chiamare l’organetto) dei campioni Christian Maës e Janick Martin, sostenuti dalla fantasia di Etienne Gruel a tutta una serie di percussioni mediorientali (bendir, daf, dombak, riqq, darbuka).
E infine, non da ultimo, al concerto conclusivo dell’intera rassegna, affidato non a caso ai francesi Djal, blasonato ensemble di neotrad, direttamente proveniente dalla regione sud orientale del Rhône-Alpes, giunto ad Etétrad per festeggiare il venticinquesimo anno di attività e presentare il recente Quarterlife (Live). Un sestetto abilissimo, quasi compassato (tale il controllo esercitato da tutti i suoi elementi), nell’intessere un mirabile e rotondo amalgama sonoro, composto dalle vaporose sonorità dell’organetto di Stéphane Milleret (ad Etétrad anche in un formidabile duo con Cyrille Brotto), dei fiati di Jérémie Mignotte e Christophe Sacchettini, della ghironda elettrificata del valoroso Sébastien Tron, del bouzuki e della chitarra di Jean Banwarth e del basso elettrico di Claude Schirrer.
Ma Etétrad, come dicevamo, sta sempre più aprendosi ad altre sonorità e provenienze, ad un’idea ancor più ampia, eterogenea ed inclusiva di world music, con l’intento di far dialogare il più possibile tra loro le varie musiche del mondo (plurime ramificazioni di una medesima ancestrale radice sonora), non solo quelle appartenenti alle regioni francofone o alpine (con le alpi intese come opportunità di scambio ed incontro, non di arricciata chiusura all’insegna di false identità).
E se lo scorso anno era stata la volta di Ginevra Di Marco con le sue ballate popolari, le sue Stazioni Lunari e il suo occhio di riguardo nei confronti del repertorio di Mercedes Sosa, la ciliegina sulla torta di quest’anno è stata, in questo senso, l’elegante performance della grande Elena Ledda, straordinaria voce del panorama popolare italiano, così intrisa di sincerità e umanità, prima ancora che di fascino, sensualità, e delicata e tenace femminilità, che ad Etétrad, accompagnata dal suo storico e valoroso gruppo di musicisti, con l’eccezionale Mauro Palmas a una limpida ed ombrosa mandola (davvero funambolica la sua prova), ha presentato il suo più recente e premiato Làntias (“lumi” in italiano), un racconto (grazie ai testi risonanti di Maria Gabriella Ledda, sorella di Elena) della caleidoscopica contemporaneità mediterranea, con particolare attenzione all’universo femminile, nell’espressivo e musicale dialetto campidanese, l’originale macrovariante centromeridionale (cagliaritana soprattutto) della lingua sarda.
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Ma la vera piccola grande novità dell’edizione 2019 di Etétrad è stato l’andare al cinema.
Nel primo pomeriggio della giornata conclusiva, infatti, presso il Cinéma de la Ville di Aosta, gli organizzatori del Festival, in collaborazione con Film Commission Valle d’Aosta, hanno deciso di proiettare Le grand bal della dolce e malinconica regista Laetitia Carton, pellicola presentata fuori concorso al Festival di Cannes del 2018 e premiata come miglior documentario all’ultima edizione dei César, uscita nelle sale in Italia lo scorso maggio.
Un film commovente e delizioso, poetico e divertente, oseremmo dire indimenticabile, con alcune scene davvero magistrali sul piano cinematografico, dedicato al fenomeno del ballo, e nello specifico al Gran Ballo popolare che ogni estate si svolge a Gennetines, piccolo paesino francese dell'Alvernia, nella zona del Massiccio Centrale, dove duemila persone arrivano da ogni parte del mondo per stare insieme, per prendersi letteralmente per mano e ballare senza soluzione di continuità per ben sette giorni e otto notti di fila. Non è un rave o un ebbro raduno sabbatico, e nemmeno una gara di resistenza, ma una specie di rito collettivo, una maniera di sentirsi vivi (qui e ora, dimenticando il trascorrere del tempo), e finalmente o di nuovo in armonia e comunione con gli altri.
Un rito che con delicatezza e grazia, gentilezza e generoso slancio, intende sciogliere l’individuo dalle sue catene e armature, riportandolo a una forse più primitiva e smaliziata dimensione comunitaria, lontana da stolti individualismi, volgarità e sfrenata competizione.
Un po’ come ogni anno accade a Etétrad (il concerto espressamente da ballo che, in questo senso, ci ha forse più coinvolto nell’edizione appena terminata è stato quello dei giovani piemontesi Balarù, che con arrangiamenti discreti e moderni, ripropongono in modo squisito brani e danze provenienti da diverse parti del Piemonte), dalla cui “piccola” e purtroppo breve rivoluzione permanente (chissà se Lenin l’aveva immaginata anche così?) è difficile risvegliarsi.
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