Ermione torna a Napoli
Al San Carlo l'opera di Rossini con la direzione di De Marchi e la regia di Spirei
Innanzitutto, un grazie alla squadra del San Carlo – che guarda ormai da anni a Rossini con costante attenzione. Ermione, nuova produzione del Teatro in scena dal 7 al 10 novembre 2019, è tappa più attesa della stagione che volge al termine, rappresentata in occasione dei duecento anni dalla prima assoluta a Napoli, con l’obiettivo di porre la città e i protagonisti della sua cultura musicale al centro del progetto. È assolutamente Rossini, con accento drammatico, con le sue trasformazioni formali, visionarie, che indicheranno la strada alla produzione operistica che verrà. Un’opera rara e fortemente identitaria, più amorosa e meno politica. Un titolo forte nelle produzioni d’opera della capitale napoletana nel 1819. Impegnativa per costruzioni formali – soprattutto nell’atto finale - e di enorme richiamo internazionale grazie a un cast ottimo. Certo non ci sono il tenore o il soprano che fanno subito sbancare tutte le recite al botteghino, ma merita il viaggio pur senza divi.
Anche, eventualmente, per litigare con la regia di Jacopo Spirei, arida ed intellettuale, che non racconta. Ora eccentrica, con un improvviso squarcio di realismo, ad esempio, nel banchetto ideato per la seconda scena del II atto; ora virata su di un ibrido Novecento con un palazzo in bianco per tutto lo spettacolo, con un Pirro senza trono, in stile oratoriale prima e poi da ufficio, con una Ermione sospesa, senza tempo. Irritante, ma non banale l’intellettuale regista italiano. Comunque, capace di creare una tensione emotiva tra i personaggi e all’interno di ciascuno di loro. Così, nonostante la messinscena straniante, l’ascolto non si ferma ai dettagli in scena, di Nikolaus Webern, o ai costumi, di Giusi Giustino – ormai sulla solita moda delle sfumature cromatiche di un’unica tonalità, ma sempre di gusto raffinato - ma va oltre le singole voci: Angela Meade Ermione, Teresa Iervolino Andromaca, John Irvin Pirro, Antonino Siragusa Oreste, Filippo Adami Pilade, Guido Loconsolo Fenicio, Gaia Petrone Cleone, Chiara Tirotta Cefisa e Cristiano Olivieri Attalo, generose, ampie, restituiscono la vera dimensione del canto di Rossini, virtuosistico, drammatico, balzante, sempre corale, staccato dalla mera nota, lancinante sull’emotività e sulla gabbia dei conflitti umani. A parte un inizio incerto nell’impatto sonoro e musicale di alcuni solisti nella Sinfonia, quello che arriva poi alle orecchie è un autentico fiume di canto – che si amplifica nel secondo atto – compatto e di straordinaria tensione.
Rossini scrive qui con meno numeri chiusi, scolpendo scene di sempre maggiore ampiezza, e la spinta interna di ciascuna porzione mira all’arcata unica, senza fermate. Il pubblico lo sente. Finalmente nel secondo atto, dove, vocalmente, Angela Meade dà il meglio, la scrittura chiede meno tenerezza e lirismo chiaro, soppiantati da maggiore disperazione, determinazione e follia. Poco charme Ermione, ma acuti e timbro sono insuperabili, possenti quasi verdiani. Meno toccante John Irvin, è un Pirro poco eroico e virile: manca di spessore in tutto. Tra le voci spicca la Iervolino, dominio tecnico, molto talento, un colore quando sale di velluto. Orchestra del San Carlo suona corretta, il coro invece poco effusivo, a tratti palesemente in difficoltà. Alessandro De Marchi è autorevole nel gesto, conosce i segreti del sinfonismo in buca. Concerta, con ricca espansione, un Rossini più strumentale affondato nei registri scuri degli archi, lirico e ritmico. I palchi appaiono pieni, il pubblico applaude con entusiasmo, e alla fine Rossini suona più vicino. Lontano dalle convenzioni, dal “si è sempre fatto e si fa così”, la sua partitura ci arriva densa e drammatica.
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