Due volte Barbablù
Al festival di Lione l’opera di Bartók viene eseguita due volte consecutivamente con due diverse regie, entrambe firmate da Andriy Zholdak
Undici anni separano la prima assoluta di Ariane et Barbe-Bleu di Paul Dukas, scelta dall’Opéra National de Lyon per inaugurare il suo festival del 2021, da quella del Castello di Barbablù di Béla Bartók, presentato dal festival due giorni dopo. L’accostamento è estremamente interessante: mentre Dukas è ancora immerso nel simbolismo. pur cominciando a sentire la necessità di superare quel mondo, Bartók scioglie il simbolismo nell’espressionismo e vi integra anche le nuove teorie psicanalitiche (il lettino del Dottor Freud già da qualche anno era in funzione a pochi chilometri da Budapest). Il tutto in un’opera estremamente concentrata della durata di poco più di un’ora, in cui, messe da parte l’estenuate atmosfere e il gusto estetizzante del simbolismo, la tensione drammatica non conosce momenti di rilassamento. Eppure in scena non succede quasi nulla, tanto che spesso quest’atto unico viene eseguito in forma di concerto. Non c’è praticamente azione, al di là dell’apertura delle sette porte una dopo l’altra: quel che si cela dietro ogni porta – e qui sta il residuo di simbolismo presente nel testo - rappresenta un aspetto dell’anima maschile, cioè la crudeltà, la sete di potere, la ricchezza spirituale, la tenerezza, l’orgoglio, i dolori e gli amori passati.
Dunque in scena non succede quasi nulla. A meno che non intervenga un regista genialoide come Andriy Zholdak (autore anche delle scene e delle luci, mentre i costumi sono di Daniel Zholdak). Di lui si ricorda la messa in scena dell’Incantarice di Čajkovskij al festival di Lione del 2019, quando sembrò che non ne avesse fatto una sola regia ma ne avesse proposte diverse simultaneamente, alternandole, accostandole e sovrapponendole, offrendo così allo spettatore un flusso incessante di suggerimenti e stimoli. Una regia geniale! Questa volta Zholdak sceglie di non portare avanti contemporaneamente diverse interpretazioni, ma di proporre due diverse regie della stessa opera una dopo l’altra nella stessa serata, forse perché il Castello di Barbablù non ha la natura labirintica e in parte anche irrisolta dell’Incantarice ma al contrario è molto sintetica e compatta - la si potrebbe dire dire minimalista quanto alla drammaturgia, non certamente quanto alla musica – e quindi non lascia molto spazio all’accumulo di idee disparate e apparentemente inconciliabili.
Abbiamo visto un primo Castello di Barbablù, dove al centro del palcoscenico sta effettivamente la sala di un castello con sette porte, tre per lato e un’altra in fondo, che è anche uno specchio. Ma la scena ruota in continuazione e compaiono altri ambienti, tra cui un gabinetto lurido, una stanza decorosa ma decaduta e una cucina in grande disordine, in cui deve essere successo qualcosa di terribile, perché ovunque si vedono schizzi di sangue. Transitano in continuazione vari personaggi, tra cui alcune donne, che l’una dopo l’altra vengono sgozzate: si suppone siano le mogli di Barbablù. Due uomini hanno rapporti omosex, simulati ma molto realistici, con contorno di coprofilia: anch’essi sgozzati. Non tutti fanno questa fine: tra quelli che si salvano c’è un’anziana ed esile signora, la governante (o madre?) di Barbablù. Si è infastiditi e disgustati e allo stesso tempo irretiti e catturati. Zholdak conferma il suo straordinario talento teatrale ma l’unico significato che si riesce a districare da questa prima regia è che, se le porte del castello aprono l’accesso agli aspetti segreti dell’anima di Barbablù, allora in quell’anima non c’è spazio che per sesso e sangue. Ed è esattamente quel che evoca il nome di Barbablù nell’accezione comune di serial killer di donne.
Ma forse questa prima messa in scena dell’opera va intesa soltanto come un prologo che, offrendo eventi disparati dal significato inafferrabile e contraddittorio, serve a preparare la seconda versione, in cui tutti pezzi del puzzle, dopo averne scartata una non piccola parte, si ricompongono.
Questa seconda messa in scena è molto più aderente alle indicazioni del testo e della musica. Ora tutto si svolge - proprio come dovrebbe essere - nella claustrofobica sala con sette porte chiuse, quel che sta dietro le porte non viene mostrato e i due protagonisti sono soli in scena. Ma non sempre assolutamente soli, perché dalle porte entrano ed escono dei fantasmi o piuttosto degli ectoplasmi creati dalle loro menti. Diversamente che nella prima versione, questi figuranti non sono troppo invadenti, tranne un trans che attraversa più e più volte la scena svolazzando come una farfalla, forse con un senso ironico nei confronti dell’atmosfera oppressiva dell’opera: o almeno il sottoscritto non è riuscito a percepirne nessun’altra funzione. Salvo alcuni dettagli, questa seconda regia è molto potente, eccezionale nella capacità di concentrare tutta l’attenzione sui due unici personaggi e sul castello – un vero e proprio terzo “personaggio” e non il minore, cui non a caso spetta l’onore di dare il titolo all’opera - e di creare una tensione continuamente crescente solo con la recitazione e le luci, oltre che naturalmente con la musica, ora restituita alla sua vera natura di sonda che scende nelle profondità misteriose della psiche dei due protagonisti.
Due sono le interpreti di Judith, entrambe superbe. Nella prima versione Eve-Maud Hubeaux è ferina, sensuale, aggressiva e non teme di spingere al limite la sua voce e di ricavarne sonorità anche aspre: d’altronde questa non è certo un’opera di bel canto. La seconda Judith è Victoria Karkacheva, più interiorizzata, totalmente concentrata sui risvolti psicologici o piuttosto psicanalitici del suo rapporto con Barbablù, con una linea di canto più lirica, capace d’infinte, mirabili sfumature. Chi non cambia nelle due messe in scena è Karoly Szemeredy, che interpreta Barbablù primo e secondo conservando lo stesso abito e offrendo la stessa interpretazione: il suo Barbablù non è un essere inquietante e minaccioso, un assassino potenziale o reale, ma un uomo sostanzialmente banale, perfino con un fondo di di dolcezza forse, ma sicuramente disperato e quindi bisognoso di essere rassicurato e sostenuto.
Anche il direttore non cambia ma nel suo caso cambia di molto l’interpretazione nelle due versioni dell’opera. Nella prima Titus Engel punta sul dinamismo e sui contrasti presenti nella partitura di Bartók, mentre nella seconda svolge un raffinato lavoro sui timbri dell’orchestra, estraendone preziose sfumature impressioniste ed atmosfere evocatrici. L’orchestra dell’Opéra di Lione offre ancora una volta una prova eccellente: non è un’orchestra dal suono magico ma una compagine di grande professionalità, totalmente affidabile, sempre precisa e senza un attimo di rilassamento o distrazione.
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