Daniele Rustioni protagonista a Lione
Macbeth e Attila completano il programma del festival dell’Opéra National
Oltre al Don Carlos (qui la recensione) quest’anno erano in programma al festival primaverile dell’Opéra National de Lyon altre due opere di Verdi, Macbeth e Attila. Protagonista assoluto del festival è stato Daniele Rustioni, chiamato a sostenere prima il faticoso tour de force di preparare tre opere contemporaneamente e a superare poi un severo esame d’interprete verdiano davanti al pubblico e alla critica.
Nella sua interpretazione del Macbeth ha dato l’impressione di partire dalla considerazione che quest’opera è stata scritta tra l’Attila e I Masnadieri e che conseguentemente il suo stile musicale non può differire molto da quello delle altre opere giovanili di Verdi. Come risultato si è avuta una certa attenuazione delle nuove prospettive che si aprono all’arte di Verdi in quest’opera, indubbiamente anche grazie al soggetto shakespeariano. Così alcune delle pagine più potenti e nuove – quelle che scavano nella psiche corrosa e alterata di Macbeth e della Lady, come, ad esempio, il duetto “Fatal mia donna” e la scena dell’apparizione del fantasma di Banco - hanno perso un po’ di quel carattere che le rende uniche e nuove. Però con questa sua scelta il direttore milanese ha anche dimostrato che lo stile del primo Verdi può essere adatto anche a pagine da cui emana un senso di mistero e di angoscia profondamente nuovo, come, per fare un solo esempio, il finale del primo atto, dal grido stravolto di Macduff “Orrore! Orrore!” in poi. Rustioni stesso nell’intervista rilasciata durante le prove aveva detto di trovare quest’opera la più difficile e faticosa delle tre che lo attendevano a Lione ed effettivamente questo si avvertiva nella sua direzione. Ma la sua è stata una prova complessivamente positiva, tanto più se si considera che certamente non lo hanno aiutato la debolezza dei cantanti e l’estraneità della regia alla drammaturgia verdiana.
Non era la prima volta che Susanna Branchini prestava alla Lady la sua voce, ma in quest’occasione manifestava un evidente sforzo, con continue asprezze e disuguaglianze: eppure in qualche modo ha superato l’ostacolo, andando con la forza della volontà al di là di quel che le sue reali possibilità le avrebbero consentito. Paradossalmente la sua debolezza vocale diventava un punto a vantaggio della sua interpretazione, facendo emergere la fragilità di Lady Macbeth, che è spinta dall’ambizione a delitti terribili ma cede poi sotto il peso delle sue colpe. Elchin Azivov è invece dotato di una voce sicuramente sana e robusta, ma non esprimeva nulla della personalità di Macbeth, se non – a voler benevolmente interpretare la sua inespressività – l’indifferenza morale e la forza un po’ ottusa di un soldato che combatte fino alla fine e muore con la spada in mano (ma, come diremo tra un po’, il finale questa volta era diverso). È giusto sospendere il giudizio sul giovane tenore Arseny Yakolev, reduce da un’indisposizione, che è incorso in alcuni pesanti incidenti di percorso nella sua interpretazione di Macduff. Di gran classe, ça va sans dire, la prestazione di Roberto Scandiuzzi nella parte di Banquo.
Veniva riproposta la regia di Iva van Hove, creata a Lione nel 2012 e accolta allora con irritazione da alcuni ed entusiasmo da altri. Il regista belga, quasi totalmente ignoto in Italia ma molto stimato oltralpe, partiva da un’idea audace ma non priva di giustificazioni: Shakespeare e Verdi hanno ambientato la vicenda nella Scozia medioevale e semibarbarica, ma la sete di potere è eterna e insaziabile e oggi domina il mondo dell’alta finanza. Dunque tutta l’azione si svolge nella sede newyorchese di una grande società finanziaria, dove una schiera di broker segue su grandi schermi le quotazioni di borsa. Alla fine Macbeth non muore in battaglia: i rifugiati scozzesi vengono infatti sostituiti dai manifestanti di “occupy Wall Street”, che non lo uccidono ma fanno crollare il suo impero finanziario. A lui, ormai ridotto a mendicare, Malcolm offre una scodella di brodo. Il problema di questo tipo d’interpretazioni è portare avanti l’assunto iniziale mantenendo almeno qualche punto di contatto con il dramma e la musica originarie: qualche regista (Vick, Michieletto) talvolta ci riesce, ma van Hove sembra ritenere trascurabile quest’aspetto, cadendo in una serie di incomprensibili assurdità e plateali errori, talvolta piccoli ma sempre gravi, come se non capisse affatto la drammaturgia e la musica di un’opera di Verdi.
Per la terza e ultima opera del festival ci si è trasferiti dall’Opéra all’auditorium, dove l’Attila è stato eseguito in forma di concerto. Quest’interpretazione era più sedimentata della precedente, essendo stata già presentata a Lione in autunno e poi a Parigi, e questo si rifletteva in una più totale immedesimazione da parte dei cantanti e del direttore e in una maggiore sicurezza dell’orchestra, che nelle due altre opere era invece sembrata piuttosto prudente, quasi timorosa, particolarmente gli ottoni, che in questi casi sono sempre i più esposti. Qui Rustioni dimostrava senza alcun possibile dubbio di avere Verdi nel sangue: la sua interpretazione - come richiede quest’opera tipica del primo Verdi, essenziale e popolare ma certamente non rudimentale o volgare - era meno costruita e più serrata e incalzante, portando la temperatura al color bianco. Ne dava una dimostrazione esemplare la ripetizione delle cabalette, che tante altre volte è sembrata soltanto uno scrupolo filologico e che qui invece ritrovava la propria vera funzione, cioè concludere il pezzo in uno stato di esaltazione, travolgendo gli ascoltatori con un irresistibile crescendo e portando alle stelle l’entusiasmo.
La prestazione dei cantanti ha ben risposto alle sollecitazioni del direttore. Tre erano russi, a conferma della bontà di una scuola che sforna innumerevoli voci pronte ad affrontare ogni repertorio. Molto bene l’Attila barbarico ma magnanimo di Dmitri Oulianov (così scrivono il suo nome i francesi, ma è più corretta la translitterazione Ulyanov: lo stesso cognome di Lenin… saranno parenti?) e l’Ezio di Alexei Markov, ammantato nella grandezza imperiale romana ma inaffidabile doppiogiochista. Tatiana Serjan ha affrontato con sgomentevole sicurezza l’aria d’entrata di Odabella, terribile di per sé e ancor più perché deve essere cantata a freddo; ma questa voce d’acciaio, spesso chiamata anche dai teatri italiani a sostenere i ruoli verdiani più ardui, suscita qualche perplessità per l’abitudine di cantare solo le vocali e ignorare le consonanti, alterando così il fraseggio e snaturando la melodia. Assolutamente idiomatico era invece il canto di Massimo Giordano, che ha tecnica e stile e canta con voce potente ma fluida e morbida, come richiede la vocalità italiana, e la cui ottima dizione fa capire chiaramente ogni parola, cosa nient’affatto scontata, nemmeno da parte di un cantante italiano.
L’anno prossimo il festival tornerà a titoli più rari: L’incantatrice di Čajkovskij, un Didon & Enée di Purcell/Kallima e Il ritorno d’Ulisse in patria di Monteverdi.
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