Dan Weiss Starebaby: heavy me(n)tal

A Piacenza Jazz l'ipercinetico e ipertecnico supergruppo del batterista Dan Weiss

Dan Weiss - Starebaby (foto di Angelo Bardini) - Piacenza Jazz
Dan Weiss - Starebaby (foto di Angelo Bardini)
Recensione
jazz
Teatro President, Piacenza
Dan Weiss - Starebaby
02 Marzo 2019

Dopo il concerto di apertura affidato alla sapienza ed alla classe infinite di Bill Frisell, per il festival Piacenza Jazz, giunto alla sedicesima edizione, va in scena il quintetto del batterista Dan Weiss, Starebaby. Sul palco del Teatro President, dove anni fa venimmo travolti dal ciclone degli Art Ensemble of Chicago (con ancora Malachi Favors in formazione), sale una formazione monstre che comprende, oltre al leader e autore di tutte le composizioni dietro ai tamburi, Ben Monder alla chitarra, Trevor Dunn al basso (a conti fatti il vero mattatore della serata, inarrestabile), Craig Taborn alle tastiere (Rhodes, Prophet) e Matt Mitchell (pianoforte e Prophet). Tanta era la curiosità di vedere in azione questi ultimi due nella stessa formazione, anche se a dire il vero nell’economia di questo progetto alla fine sono risultati utilizzati al di sotto delle loro (sconfinate) potenzialità.

Il progetto Starebaby è un mood di nuvole che manterranno la pioggia che promettono, come dei Soft Machine metallici e persi in labirinti iper-jazz, intenti a una scrittura fitta, spigolosa, enfatica e affilata, anche se non in tutti i frangenti nitida e calibrata. Alcuni barocchismi a volte appesantiscono l’ascolto, troppa matematica toglie spazio allo stupore: metriche articolatissime e irregolari, poliritmie, pulsazioni complicate come fitte selve in cui a volte ci si perde. Lo sviluppo di tutte le composizioni (il programma che ci viene proposto è composto solo da pezzi inediti che presto verranno registrati) è ipertrofico, magniloquente, come un Pat Metheny ipercinetico e in fissa coi King Crimson o dei Weather Report in anfetamina: una sorta di jazz rock, o di me(n)tal ipertecnico capace di travolgere quando trova il lampo giusto, ma non sempre perfettamente a fuoco.

Quando Mitchell e Taborn suonano il piano a quattro mani la velocità di crociera(sempre e comunque elevatissima) aumenta ancora, e sentiamo uno shuffle che viaggia su orbite lunari, seguito poi da una sorta di death-punk-jazz che svela in seguito un altrove luminoso oltre una spessa coltre di nubi. Febbri kraut dispari, l’estasi frenetica della pulsazione della musica carnatica e labirinti come un Bach senza la sacra bussola dell’arte della fuga: quando si aprono varchi tra questi rovi spinosi e spessi, tra le rovine di una musica che suona come una Mahavishnu Orchestra passata in una centrifuga, si intravedono bagliori ambientali, fondali di abisso, detriti, fossili, profili di naufragi e di naufraghi. Scosse sismiche e un dettato a tratti eccessivamente denso che finisce talvolta, citando Woody Allen, per citarsi addosso.

Un suono pienissimo (troppo alto il volume, in particolare della batteria) e ad alto tasso energetico, ma che resta a tratti prigioniero dei suoi stessi prodigi, asettico, forse troppo calcolato, come un matematico che insegue un qualche delirante e imprendibile teorema. Nel bis, richiesto da un pubblico non foltissimo ma assolutamente caloroso nei confronti di una proposta non certo convenzionale, viene suonata "Depredation", dal disco su PI Recordings, con Matt Mitchell finalmente libero di sfogare il proprio talento sul synth, aggiungendo taniche di propellente al serbatoio di una navicella spaziale che finalmente decolla, poi sale, sale e sale, oltrepassando le atmosfere per giungere infine ad un punto lontanissimo dal quale il rock, il jazz, la psichedelia, il prog sono solo un ricordo lontanissimo, in un esercizio minimassimalista che spazza via tutto.

Un concerto con diversi spunti di interesse, al netto di una composizione a volte un po’ troppo auto indulgente, ma che avrà avuto, crediamo, il merito di aver fatto intuire ai tanti giovani (tra i quali sospettiamo diversi batteristi) presenti in sala che esistono anche altri modi di suonare heavy metal, ed altre strade da percorrere, diverse da quelle standard, quando si vuole affrontare il mondo del jazz, che, fortunatamente, è vasto come l’universo, e come questo ancora in espansione.

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