Dalla luce alla tenebra e ritorno
A Francoforte in scena l’insolito dittico Oedipus Rex di Stravinskij e Iolanta di Čajkovskij
Radici russe a parte, all’apparenza hanno ben poco in comune le due opere Oedipus Rex e Iolanta presentate all’Opernhaus di Francoforte in un’unica serata nel nuovo allestimento firmato da Lydia Steier. Benché prodotte in stagioni culturali radicalmente diverse, esistono dei fili che le legano e che la regista mette in evidenza con l’appoggio, soprattutto in Iolanta, di un intervento drammaturgico, per così dire, creativo. In entrambe c’è un trauma che colpisce le vite dei protagonisti e in entrambe un’agnizione che determina una svolta esistenziale drammatica. È palesemente il caso di Edipo, la cui presa di coscienza dell’ignaro parricidio e quindi dell’inconsapevole legame incestuoso con la madre Giocasta, si priva della vista nel tragico precipitare degli eventi che culmima con il suicidio della madre-amante. Lo è in maniera meno evidente, invece, per Iolanta, ragazza cieca ma inconsapevole della sua menomazione per ostinata volontà del padre monarca, che impone una penosa finzione alla corte. Nella lettura di Lydia Steier, la cecità di Iolanta è frutto della violenza paterna, esplicitamente suggerita dalle immagini delle mani del genitore che si insinuano sotto agli abiti della figlia. Sarà l’amore di uno straniero, Vaudémont, che rompe il velo di quella finzione a restituire consapevolezza a Iolanta e a restituirle la luce, con l’inevitabile suicidio del padre come tragico epilogo (non previsto nel libretto). Un percorso dunque simmetrico dalla luce alla tenebra e dalla tenebra di nuovo alla luce.
Non sottolinea troppo le affinità ma, anzi, insiste sul contrasto la realizzazione scenica dei due lavori, che non va oltre il convenzionale per l’Oedipus: la sala del parlamento di Tebe affollata dei notabili è la scena unica dove si consuma la tragedia personale di Edipo e il suo crollo politico per mano del dittatoriale Creonte in mimetica militare. Più ispirata invece Iolanta, anche nella scelta scenografica di Barbara Ehnes (che insolitamente strappa un applauso ad apertura di sipario): la cameretta di Iolanta è uno spazio sospeso con due alte pareti a libro coperte da oltre 400 bambole perfettamente allineate e vestite di rosa neon confetto come Iolanta, un chiaro riflesso del feticismo patologico del padre.
Anche sul piano musicale, convinceva meno la prima parte della serata soprattutto per la direzione musicale di Nikolai Petersen, che tendeva a frenare la forza barbarica che sprigiona dalla gabbia neoclassica della partitura stravinskiana, ma anche per un cast sfuocato specie nei ruoli chiave. Peter Marsh era un Edipo corretto ma privo di spessore tragico, così come la Giocasta di Tanja Ariane Baumgartner, incinta e con la piccola Antigone per mano, insolitamente sottotono. Molto meglio la protagonista dell’opera di Čajkovskij, Asmik Grigorian, che, dopo la straordinaria prova nella Salome salisburghese, confermava le doti non comuni di interprete capace di piegare uno strumento vocale superbo alle esigenze del personaggio ma anche uno spiccatissimo e accattivante istinto scenico. Al suo fianco, buone soprattutto le prove di Robert Pomakov, efficace nel disegnare le oscure inquietudini del padre René, AJ Glueckert, un Vaudémont di slancio lirico ma piuttosto impacciato sul piano scenico, Gary Griffiths, un Robert di sfrontata estroversione, e Andreas Bauer, che regalava al medico Ibn-Hakia un fascino fosco. Con un coefficiente zuccherino piuttosto elevato, in questo Čajkovskij la direzione di Petersen trovava toni più ispirati così come la Museumorchester, più brillante che in Stravinskij.
Pubblico numeroso, risposta calorosa.