Cultura l'è morta
I tagli al Fus determineranno effetti-a-catena devastanti
Recensione
classica
Cosa succederà alla musica in Italia dopo quest'ultimo taglio drastico del 40% dei finanziamenti statali (Fus)? Dal punto di vista del pubblico, una flessione grave dell'offerta, ma apparentemente niente di tragico: una riduzione significativa dei cartelloni, minore qualità, qualche teatro commissariato in più. Chiuderà il teatro o l'orchestra cittadina? C'è sempre il disco, la rete, la possibilità di spostarsi in una città limitrofa, o magari la televisione, come scriveva Alessandro Baricco qualche tempo fa sulle pagine di "Repubblica". Tanti musicofili hanno sempre coltivato la loro passione a casa comunque. Il cambiamento grave riguarderà invece la vita musicale e, più in generale, la cultura musicale del nostro Paese.
In questo caso la conseguenza sarà letale, un colpo di grazia a un organismo già moribondo. Mi spiego. L'attività dei teatri e delle orchestre non si esaurisce nell'esecuzione musicale, ma costituisce il volano, la ragione ultima di un sistema complesso che comprende formazione (conservatori, università), comunicazione (media, stampa specializzata), produzione e ricerca. Se si toglie ai teatri la loro capacità produttiva si uccide l'intero organismo che di fatto rappresenta l'unico strumento possibile per salvaguardare e alimentare il nostro patrimonio musicale. In fin dei conti una parte vitale della nostra identità storica e culturale. Questo pareva essere il senso dell'appello di Daniel Barenboim che il 7 dicembre alla Scala usciva dalla buca dell'orchestra per leggere, di fronte al Presidente della Repubblica, l'articolo 9 della Costituzione («la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»). Se le orchestre e la vita concertistica non rappresentano più una realtà professionale, mancherà lo stimolo e la ragione per intraprendere la carriera musicale, si perderanno gli insegnanti in grado di formare i musicisti, le istituzioni cambieranno la loro fisionomia. Parlo al futuro ma gran parte, la quasi totalità di questo fenomeno di degrado è già storia passata. Quello del musicista già da tempo non è più un mestiere in Italia. Non ha più il riscontro economico né la dimensione sociale per esserlo. I Conservatori di conseguenza stanno cessando di essere dei centri di formazione professionale trasformandosi in un contenitore per lezioni private dove arricchire le proprie conoscenze musicali a scopo personale. Non esiste più nessuno ragionevolmente disposto a studiare soltanto musica. Le poche eccezioni devono espatriare se vogliono avere, non dico accesso, ma anche solo la percezione di un contesto lavorativo. Essendo la pratica musicale un sapere che si trasmette di generazione in generazione, in Italia si è andata perdendo negli ultimi decenni del secolo scorso una grande tradizione didattica e interpretativa che affondava le proprie radici in secoli di storia e che formava nuovi talenti per consegnarli alla fama mondiale.
Solo una decisa inversione di tendenza e un prolungato impegno programmatico ed economico avrebbe potuto iniziare a ricostruire con pazienza un sistema in gran parte perduto. Diversamente, l'Italia negli ultimi cinque anni è passata, senza un progetto alternativo, dagli oltre 500 milioni di euro di contributi allo spettacolo agli attuali 288 milioni, contro i circa 650 della Francia e gli oltre due miliardi e mezzo della Germania, vanificando l'ultima speranza di salvaguardare il suo patrimonio. L'unica cosa che il mondo invidia ancora all'Italia musicale è la sensibilità del suo pubblico; un valore che non ha bisogno di essere finanziato, è vero, ma che una volta perso, è perso per sempre.
In questo caso la conseguenza sarà letale, un colpo di grazia a un organismo già moribondo. Mi spiego. L'attività dei teatri e delle orchestre non si esaurisce nell'esecuzione musicale, ma costituisce il volano, la ragione ultima di un sistema complesso che comprende formazione (conservatori, università), comunicazione (media, stampa specializzata), produzione e ricerca. Se si toglie ai teatri la loro capacità produttiva si uccide l'intero organismo che di fatto rappresenta l'unico strumento possibile per salvaguardare e alimentare il nostro patrimonio musicale. In fin dei conti una parte vitale della nostra identità storica e culturale. Questo pareva essere il senso dell'appello di Daniel Barenboim che il 7 dicembre alla Scala usciva dalla buca dell'orchestra per leggere, di fronte al Presidente della Repubblica, l'articolo 9 della Costituzione («la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»). Se le orchestre e la vita concertistica non rappresentano più una realtà professionale, mancherà lo stimolo e la ragione per intraprendere la carriera musicale, si perderanno gli insegnanti in grado di formare i musicisti, le istituzioni cambieranno la loro fisionomia. Parlo al futuro ma gran parte, la quasi totalità di questo fenomeno di degrado è già storia passata. Quello del musicista già da tempo non è più un mestiere in Italia. Non ha più il riscontro economico né la dimensione sociale per esserlo. I Conservatori di conseguenza stanno cessando di essere dei centri di formazione professionale trasformandosi in un contenitore per lezioni private dove arricchire le proprie conoscenze musicali a scopo personale. Non esiste più nessuno ragionevolmente disposto a studiare soltanto musica. Le poche eccezioni devono espatriare se vogliono avere, non dico accesso, ma anche solo la percezione di un contesto lavorativo. Essendo la pratica musicale un sapere che si trasmette di generazione in generazione, in Italia si è andata perdendo negli ultimi decenni del secolo scorso una grande tradizione didattica e interpretativa che affondava le proprie radici in secoli di storia e che formava nuovi talenti per consegnarli alla fama mondiale.
Solo una decisa inversione di tendenza e un prolungato impegno programmatico ed economico avrebbe potuto iniziare a ricostruire con pazienza un sistema in gran parte perduto. Diversamente, l'Italia negli ultimi cinque anni è passata, senza un progetto alternativo, dagli oltre 500 milioni di euro di contributi allo spettacolo agli attuali 288 milioni, contro i circa 650 della Francia e gli oltre due miliardi e mezzo della Germania, vanificando l'ultima speranza di salvaguardare il suo patrimonio. L'unica cosa che il mondo invidia ancora all'Italia musicale è la sensibilità del suo pubblico; un valore che non ha bisogno di essere finanziato, è vero, ma che una volta perso, è perso per sempre.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
classica
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento
classica
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.