Coleman e Shabaka in cerca del groove al TJF

Al Torino Jazz Festival Steve Coleman & Five Elements e Shabaka Hutchings con Hamid Drake e Majid Bekkas

Torino Jazz Festival Coleman
Steve Coleman & Five Elements
Recensione
jazz
Torino, Hiroshima Mon Amour; Teatro Alfieri
Shabaka Hutchings / Majid Bekkas / Hamid Drake - Steve Coleman & Five Elements
24 Aprile 2023 - 25 Aprile 2023

Il programma del Torino Jazz Festival 2023 offre molti possibili percorsi di ascolto. Per chi cerca di orientarsi e di dare un senso al proprio personale carnet di biglietti, l’accostamento in due sere consecutive di due campioni del sax contemporaneo come Shabaka Hutchings e Steve Coleman offre qualche spunto di riflessione su che cosa può essere oggi il “jazz” che passa per i “festival jazz”, sia dal punto di vista musicale sia da quello – più terra terra – della necessità di “fare cartellone”.

Certo, i due per molti versi sono quanto di più diverso si possa immaginare. Condividono però almeno – mi pare – una certa idea ritmica del jazz, declinata in modo molto diverso.

– Leggi anche: Torino Jazz Festival, il programma del 2023

Shabaka Hutchings è il protagonista di alcuni dei progetti più esaltanti ed energetici degli ultimi anni: gruppi come Shabaka and the Ancestors, Sons of Kemet o Comet is Coming sono ormai parte integrante di ascolti trasversali che vanno ben oltre la comunità dei jazzofili, e bazzicano abitualmente per festival che appena pochi anni fa non avrebbero toccato il jazz neanche con una stecca lunga tre metri. 

La sua presenza a Torino è però figlia della contingenza, o del caso. Il programma originale prevedeva il già rodato trio fra il marocchino Majid Bekkas (guembri e voce), Hamid Drake alla batteria e il sax di Peter Brötzmann (il cui album live al Jazzfest Berlin è peraltro in uscita per ACT): una libera rivisitazione di ritmi gnawa “sabotata” da un eroe del sax free.

Con l’improvviso ritiro dalle scene di Brötzmann per motivi di salute, annunciato una settimana prima della conferenza stampa del TJF, la sostituzione dell’ottantaduenne tedesco con il quasi quarantenne londinese è stata messa su in maniera tanto brillante quanto rocambolesca. Shabaka e tutta la sua coolness si sono così trovati catapultati, direttamente da Palm Springs e praticamente senza prove, sul palco di Hiroshima Mon Amour al posto di un collega che agisce su coordinate musicali distantissime. 

shabaka

Paradossalmente, il cartellone ne ha guadagnato. Lo dimostra il sold out con ampio anticipo: ci sono pochi dubbi, anche osservando l’età media del pubblico in sala, che il nome di richiamo fosse quello di Hutchings. 

La musica probabilmente ne ha tratto meno vantaggi, e vista la situazione non poteva essere altrimenti. I tre si studiano per lunghe parti, ma è evidente che fra Drake e Bekkas c’è un’intesa già forte e soprattutto un terreno comune ritmico su cui agire, una chiara concezione condivisa del groove e di come starci sopra. Shabaka si mette al servizio con umiltà, ma per lunghi tratti si ritrova a fare melina con vari flauti e flautini. 

shabaka drake bekkas

Certo, ci sono squarci di luce che fanno intravedere possibili sviluppi, ma per tutta la prima parte raramente vengono inseguiti. I brani vivono di scintille momentanee. Paradossalmente, il drumming di Hamid Drake, così fiorito e continuamente vario, non rende il servizio migliore all'esuberanza di Shabaka. Solo quando si cambia marcia e Drake concede qualcosa di più in termini di “tiro”, facendo un passo indietro, il sassofonista sembra liberarsi. Sul finale lo schema comincia a girare e si intravedono sprazzi di bel gioco: sarebbe da ripartire da qui e vedere che succede, ma siamo ormai al novantesimo.

Vedremo se questo nuovo trio avrà un seguito o si tratterà dell’ennesima “produzione originale” che popola ogni festival del mondo, destinata a nascere e morire nel giro di due prove (se va bene) e una serata. In questo caso, naturalmente, la direzione artistica è innocente – anzi: tanto di cappello per aver risolto il problema. 

Ma certo, quando ci si trova a distanza di 24 ore ad assistere al concerto di gruppi rodatissimi come i Five Elements di Steve Coleman, uno qualche domanda sul senso di certe “produzioni originali” / jam session se la finisce per fare.

Steve Coleman

Ci sono pochi dubbi che Coleman sia una delle punte del jazz di oggi, ciò che di più vicino a un classico contemporaneo è possibile ascoltare (lo ha ricordato lo stesso direttore artistico Stefano Zenni sul palco del Teatro Alfieri, presentando il concerto).

In quartetto con Jonathan Finlayson alla tromba, Rich Brown al basso elettrico e Sean Rickman alla batteria, Coleman si è presentato ugualmente strapazzato da un volo intercontinentale (il tour doveva iniziare il 26, ma in extremis il TJF è riuscito a strappare una data: ben fatto) ma perfettamente “dentro” la sua musica. Che dal vivo, senza strumenti armonici – basso a parte – dispiega tutto il suo fascino aritmetico di cicli e incastri, riuscendo nella sua alchimia a tenere insieme spontaneità live e rigore compositivo. È un gioco complesso, quello di Coleman, che funziona soprattutto perché chi è sul palco sa perfettamente che cosa fare e qual è il suo ruolo, anche in una serata non necessariamente al top (nei saluti finali il leader ripete «jet lag» almeno una decina di volte...).

L’intera direzione di un concerto – e di un progetto – si capisce, di solito, dai primi minuti: Coleman non ha neanche finito di presentare i musicisti che già ha isolato da un fraseggio di sax una cellula di cinque note, e il basso la sta già riproducendo. Ed è ammirevole che Rich Brown, dotato di uno di quei bassi a sei o sette corde che gridano “fusion” e fanno alzare gli occhi al cielo al cronista che pensa che quattro corde per fare un riff siano anche troppe, si limiti per lunghe fasi a suonare solo quella

È un lavoro di sottrazione quello che Coleman e i suoi fanno sul groove, fatto di omissioni e di minimi scostamenti, mai di prevaricazioni solistiche. Dietro i tamburi, Rickman riesce a essere allo stesso tempo delicato e a far ballare: si ondeggia la testa per tutto il tempo. Ha scritto Coleman qualche mese fa, in un post sulla sua pagina Facebook, che «il ritmo è movimento, e deve essere studiato come movimento, non come notazione». Nulla di più vero. Ed è in questa concezione che sta tanto la sua cifra più originale, quanto il terreno comune grazie al quale la sua musica – pur essendo “jazz” nel senso forse più proprio del concetto – può arrivare ben oltre la cerchia degli appassionati.

Anche in questo caso, il teatro esaurito e il pubblico entusiasta confermano l’intuizione.

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