Cenerentola inaugura la stagione del Teatro Real di Madrid
L'atmosfera onirica della regia di Stefan Herheim non rende pienamente lo spirito rossiniano
Ci fu un tempo lontano in cui l’opera buffa di Rossini veniva crivellata da lazzi di bassa comicità che ne stravolgevano la fisionomia. Poi, nel corso del Novecento si è presa vieppiù coscienza della tendenza metafisica del teatro rossiniano e così il modo di suonare e cantare Rossini si è fatto più geometrico e le messe in scena meno realistiche e più astratte. Ora, la tendenza della musica e della drammaturgia rossiniana a dissolvere i connotati terreni in un’ebbrezza dionisiaca è però appunto una tendenza, una traiettoria che da un dato iniziale concreto va verso lo stupore inebetito degli ensemble di perplessità, verso l’estasi delle colorature fiammeggianti, verso l’impersonalità della sillabazione meccanica e verso il delirio dei finali d’atto. Se tutto è sin da subito un marchingegno impazzito, la musica e il teatro di Rossini non lievitano, ma saturano. Questo vale ancor di più per un’opera come la Cenerentola, che non è una farsa, ma accoglie nell’impianto buffo alcuni elementi della commedia larmoyante, realistica e borghese, per poi certamente trascenderli.
Ignorare questa dialettica è stato forse l’errore di impostazione della regia di Stefan Herheim per la Cenerentola che ha aperto la stagione del Teatro Real di Madrid. Una regia, già sperimentata prima dello scoppio della pandemia a Oslo e Lione, e comunque notevole, per il virtuosismo e la veloce scioltezza degli avvicendamenti scenici, ma che ingabbia l’opera in una prospettiva univoca che non le rende piena giustizia. Dove la regia dà il meglio di sé è infatti nel finale dell’atto primo e nei vari ensemble di stupore, ma non è accettabile che qualunque inflessione del canto, ogni coloratura, ogni ribattuto venga accompagnato da gesti marionettistici dei cantanti. Il risultato è che alla fine nulla viene preso sul serio, nemmeno la musica, e si finisce per girare a vuoto. Sensazione resa ancor più straniante da una serie di scatole cinesi narrative attraverso cui la vicenda è messa tra costanti virgolette: la storia è proposta come il sogno di una donna delle pulizie d’oggi giorno ed è poi tessuta da un deus ex machina che è Rossini in persona, il quale, chissà perché, poi si cela nei panni di Don Magnifico e infine si moltiplica come la scopa dell’apprendista stregone nei vari cantanti del coro.
La coordinazione tra orchestra e cantanti ha risentito evidentemente di tutto questo gran via vai in scena, e probabilmente il fatto che il direttore avesse la mascherina, e quindi fosse impossibilitato a scandire attacchi e frasi con le labbra, ha reso il compito ancora più difficile. Comunque, tolto qualche iniziale sfasamento, la direzione di Riccardo Frizza è stata molto buona, condotta in punta di spillo, con una leggerezza davvero gradevole e il giusto equilibrio tra rigore ritmico e flessibilità nel cantabile. Ha dovuto anche fare i conti con un primo cast non proprio bilanciato: infatti, i due cantanti francesi nei panni di Cenerentola e Dandini, Karine Deshayes e Florian Sempey, hanno dato mostra di voce e fraseggio molto bene educati, ma con poco mordente e scarsa proiezione; in parte compromesso dall’errore opposto il Don Magnifico di Renato Girolami che ha un po’ offuscato la linea del canto in nome della comicità del personaggio; nel complesso, i migliori in scena sono parsi Dmitry Korchak e Roberto Tagliavini, rispettivamente Don Ramiro e Alidoro, un po’ ingessati in scena, ma vocalmente solidi e a posto nelle impervie pagine a loro dedicate. La sala era piena al 66% per cento per via delle misure antivirus, ma a giudicare dai timidi applausi la si sarebbe detta ancora più sguarnita
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