Cantata doppia sulla violenza di genere
Lo Staatstheater di Darmstadt propone un insolito dittico con La Lucrezia di Händel e Faust et Hélène di Lili Boulanger
Una donna vestita di un abito nero con paillette si rifugia nel bagno e si butta nella doccia per cancellare le tracce di una violenza appena subita. È visibilmente ferita. Le sue parole manifestano i sentimenti contrastanti che la attraversano: il dolore per quell’atto che ha ferito la sua dignità di donna, l’impotenza che la paralizza, la vergogna profonda, le esplosioni di rabbia per lo stupratore. Accarezza anche l’idea di suicidarsi, afferra la boccetta di farmaci ma non lo farà. Cambio scena. In un teatrino un illusionista si esibisce nelle sue magie da avanspettacolo: un bastone si materializza da un foulard, mazzi di fiori appaiono da cilindri vuoti, l’assistente in abito nero con paillettes (sì, proprio la donna del bagno) segata in due … E un uomo in platea che dorme un sonno agitato. Il mago ordina agli spiriti dell’aria di calmare quel sonno con sogni piacevoli e quando si sveglia, l’uomo sembra aver preso vigore. Ha sognato Elena, la donna più bella che ancora continua a soggiogare con il suo fascino. L’uomo sembra vittima di una ossessione per Elena e quel mago ne fa rivivere il fantasma per un momento di labile voluttà. Non è che un manichino inanimato quell’oscuro oggetto che scatena il desiderio dell’uomo, smembrato sulla piccola scena dell’illusionista. La donna del bagno con un bimbo in grembo, assiste muta al delirio dell’uomo.
Scegliere due cantate non pensate per la scena – La Lucrezia di Georg Friedrich Händel e Faust et Hélène di Lili Boulanger – sulla carta può sembrare un azzardo che si spiega solo nelle contingenze attuali, constatata anche l’impossibilità di riprendere il previsto Don Quichotte di Massenet allestito dallo stesso team creativo nel 2019 a Bregenz. Combinarle, poi, in un’unica serata che tenta di inventarsi una cornice drammaturgica coerente lo è ancora di più, ma è questa la scelta della regista Mariame Clément con l’intenzione di farne una serata che racconta in musica la violenza di genere. Si presta molto a descrivere lo spettro di emozioni laceranti di una donna oggetto di violenza la cantata del giovane Händel con le parole del cardinale Benedetto Pamphili dedicata alla virtuosa romana suicida per il disonore subito dal figlio del re Tarquinio il Superbo. Più ardita è invece la scelta della cantata composta da una diciannovenne Lili Boulanger per il Prix de Rome (vinto) nel 1913 e ispirata al celebre episodio della seconda parte del dramma di Goethe. Tutt’altro che compiuto sul piano drammaturgico, il pur accattivante saggio della Boulanger su un poema di Eugène Adenis si presta proprio per la sua indeterminatezza a dare forma compiuta a questo singolare “racconto a tesi”.
Se i due pezzi trovano una sintesi drammaturgica nel lavoro di regia, non è così, né potrebbe esserlo, nei linguaggi musicali che restano lontanissimi, anche nella disposizione scenica ordinata da Julia Hansen a partire dal mancato Don Quichotte: nella prima parte l’orchestra agile di Händel è sistemata in buca davanti alla scatola sospesa della scena di contemporaneo realismo, mentre nella seconda la grande orchestra della Boulanger è disposta dietro la scatola trasformata nel teatrino delle illusioni del mago Mefistofele.
Daniel Cohen guida l’esecuzione alla testa della Staatsorchester di Darmstadt, indubbiamente più a casa con i turgori post-wagneriani della partitura della Boulanger che con la scarna essenzialità della scrittura händeliana. Cast vocale ridottissimo per questa originale produzione in tempo di Covid che vede Lena Sutor-Wernich vestire i panni scomodi della donna violata con un certo vigore drammatico, mentre David Lee, Solgerd Isalv e Julian Orlishausen formano un funzionale terzetto per il sogno faustiano della Boulanger.
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