C2C 2022, promossi e bocciati
Reportage dal festival di avant-pop di Torino, fra conferme e delusioni
La differenza è generazionale e geografica: chi segue il festival da anni (sono venti quest’anno) dice «Andiamo a Club to Club». I più giovani e quelli che vengono da fuori Torino (il 70% del pubblico, ci ha detto Giorgio Valletta) dicono «Andiamo a C2C», pronunciato «CI DUE CI».
– Leggi anche: C2C 2022, i concerti da non perdere
Gli stranieri – sono molti in giro per la città nel lungo weekend dell’arte contemporanea – dicono invece «Let’s go to C2C!», pronunciato «SEE TO SEE». Ci vorrà qualche anno per uniformare il tutto.
Alla fine ci si ritrova comunque tutte e tutti al festival, diviso fra OGR (la serata di giovedì e domenica) e Lingotto (venerdì e sabato). L’edizione del ventennale è stata una buona edizione, probabilmente non la più memorabile, con alcune conferme e alcune delusioni.
Come sempre, in ogni caso, Club to Club (sono fra quelli che lo chiamano ancora così) è un buon momento per fare il punto dal vivo sul meglio delle nuove musiche pop globali – o «avant-pop», come dicono gli organizzatori di Xplosiva – ben oltre la casellina un po’ logora della “musica elettronica”. Anche perché, ci siamo resi conto alla vigilia, buona parte di quello che C2C ha programmato quest’anno era stato puntualmente recensito qui sul giornale della musica.
Vediamo allora promossi e bocciati, almeno fra quelli che sono riuscito ad ascoltare: il festival è lungo e con qualche sovrapposizione, e talvolta basta la coda per bersi una birra sovrapprezzo per perdersi un act.
Promossi
La serata di venerdì al Lingotto si apre (almeno per me) con gli Autechre, che si esibiscono sul più piccolo dei due palchi nel buio più totale: l’intero padiglione del Lingotto è illuminato solo dalle luci delle uscite di emergenza e degli occasionali smartphone. L’impatto all’ingresso è potente, e beneficia del fascino postindustriale del sito più di ogni elaborato light show… anche perché, ovviamente, gli Autechre sanno quello che fanno, e propongono un set stordente. I teorici della musica eurocolta insistevano, nel secolo scorso, sulla necessità di una “musica assoluta”: musica che non descrive nulla, “mentale” e non “corporea”, che non deve associarsi a nulla (storie, immagini… luci) ma che esiste in una “purezza” utopica. Ecco: nel dominio delle musiche elettroniche gli Autechre fanno qualcosa del genere – per quanto il corpo, nella loro musica, ci sia eccome (si vibra, e non poco, davanti ai subwoofer). Con in più lo status ormai acquisito di “classici” che gli garantisce il rispetto che si deve ai grandi innovatori. Voto 8.
L’ottimo inizio della serata di venerdì viene subito confermato dai Jockstrap, di cui avevamo parlato molto bene qui, e che dal vivo legittimano il patentino di next big thing del pop inglese più originale. Georgia Ellery emana un fascino da singer-songwriter d’altri tempi nei pezzi con la chitarra, ma il suo socio Taylor Skye a sintetizzatori e sequenze ambienta il tutto in un clima elettronico frantumato e spesso ballabile, che cambia spesso direzione e atmosfera. Il live regge anche rispetto alle atmosfere del disco, che pure era molto “prodotto”. Voto 8.5.
Il live dei Jockstrap è il giusto lancio per Caribou, che segue di poco sul medesimo palco e si presenta in formazione a quattro (oltre al titolare Dan Snaith a tastiere e sequenze, ci sono chitarra, basso e batteria in bella vista). Se nella prima parte il tutto suona un po’ troppo funk-lounge patinato (con lo spettro dei Maroon 5 che si agita sullo sfondo, e non è un complimento), la temperatura sale man mano che si avanza nella scaletta. Caribou suona ora come una “vera” band, e sa mescolare un approccio live a lunghe rielaborazioni “mixate” dei singoli che hanno fatto la fortuna del progetto, come “Odessa” e “Sun” (che, incredibile, sono usciti 12 anni fa: come passa il tempo). Il pubblico gradisce e balla fino alla lunga reprise finale, proprio di “Sun”. Visual essenziali – forme geometriche e colori primari – ma di grande impatto. Voto 8.
Ignorato Jeff Mills – che lo si è visto già altre volte – si punta per l’ultimo miglio su Jamie XX che, a giudicare dal pubblico, si è costruito una solida fanbase nei suoi precedenti passaggi torinesi. Il set si apre con i Beach Boys e decolla con il nuovo singolo “Kill Dem”, una lunga sequenza di sapore un po’ afro-caraibico, un po’ Nineties, che Jamie ha prodotto per il carnevale di Notting Hill. Una conferma. Voto 8.
Decisamente più debole invece la serata del sabato, ma con almeno due momenti notevolissimi. Il primo è l’apertura con Makaya McCraven. Le produzioni recenti del batterista (ne abbiamo parlato qui) gli hanno garantito un pubblico ben oltre i confini del “jazz” – qualunque cosa significhi –, grazie soprattutto al lavoro di produzione e montaggio in studio di beat e voci (esemplare da questo punto di vista il lavoro dedicato a Gil Scott-Heron). C’è allora un po’ di delusione nel vederlo sul palco in un organico canonico e ridotto rispetto ad altre uscite, con tromba (Marquis Hill), chitarra (Marc Gold), basso elettrico (Junius Paul) e senza tastiere. Pur in un contesto meno “avventuroso” e con qualche momento di gigioneggiamento muscolare di troppo (McCraven è comunque un batterista molto appariscente), il risultato d’insieme è efficace: il quartetto si muove fra la ricerca di un groove danzereccio e momenti quasi math rock o progressive, come a voler cercare un punto di incontro fra i poliritmi di matrice africana e quelli di Robert Fripp. In ogni caso, un bel viaggio. Voto 7.5.
La seconda vetta della serata, qualche ora dopo sullo stesso palco, è con Caterina Barbieri. Anche qui ci troviamo di fronte a una proposta che pesca a piene mani da certe atmosfere anni settanta, in questo caso sul versante della musica cosmica tedesca o di certa contemporanea alla Terry Riley & friends. Con dei visual splendidi, ridotta a una silhoutte nera che si staglia su un drammatico cielo in colori saturi, la musicista imposta un set “duro e puro” per soli sintetizzatori modulari. Il risultato è ammaliante, anche se vista la collocazione a serata inoltrata molto pubblico aspetta con ansia una drum machine per ballare. «Ma è tutto così?» si chiede un tizio bello carico dietro di me. La risposta è sì. Voto 8.
Promosso anche il live di Pa Salieu (Voto 7.5) con sezione ritmica live, potentissimo. E – a proposito di ballare – menzione speciale per Deena Abdelwahed (Voto 8), producer tunisina che propone un set tiratissimo ben calato nell’elettronica più “mediterranea”.
Senza voto
Non so dove collocare il DJ set di My Analog Journal, perché ne ho visti solo dieci minuti in cui la sequenza proposta è stata un lungo mix di “Conga” di Gloria Estefan e “What Is Love” di Haddaway. Come al mitico Gipsy di Frabosa Soprana (CN) quando avevo vent’anni, nei primi duemila. Forse il mitico DJ Gerry (il cui motto, mi piace ricordarlo qui, era «Lasciatevi johntravolgere dal DJ Gerry») era avant-pop prima di tutti. Ironico o meno, il pubblico si diverte, e in fondo pure io.
Bocciati
E veniamo ai bocciati. Nella serata di apertura alle OGR, ho trovato al limite del sopportabile il lungo set di Lyra Pramuk. Se ascoltando il suo ottimo debutto del 2020 Alberto Campo aveva parlato di una «Cathy Berberian addolcita dalla malinconia post punk dei Cocteau Twins di Liz Fraser», nel live torinese si ha avuto l’impressione di una lunga improvvisazione vocale senza capo né coda né struttura, ma solo con tutto il set di effetti di Ableton Live attivati nello stesso tempo. Ok, bella la voce, molto fascinosa lei… però il gioco regge per 5 minuti circa, e poi tutto il resto è noia. Voto 4.
L’altra bocciatura illustre, a sorpresa, è per Arca. Avevo visto la producer venezuelana due volte, sempre a Club to Club. La prima volta, nel 2016, ricordo di essere uscito dal set con il visual artist Jesse Kanda insieme turbato e affascinato: il mito-Arca era appena agli inizi, e in quel DJ set – che era diventato a metà un live, con Arca al debutto da cantante – se ne intuiva tutto il potenziale, poi ampiamente espresso. Citazioni di salsa (“Llorarás” di Oscar D'León) portate fino al clipping, svisate metal, immagini di vitelli che vengono partoriti… La seconda volta, l’anno dopo, ora sul palco principale, ne avevo scritto in maniera ugualmente entusiasta: «È davvero – come ha detto qualcuno – il punk 40 anni dopo, per la violenza del suono, per la centralità del corpo, per la provocazione, per come alza l’asticella di ciò che è consentito fare, mostrare e fare ascoltare in pubblico».
E che resta ora? La maniera, o poco più. Il set di OGR scorre lento e continuamente interrotto da dialoghi con il pubblico poco comprensibili e auto-riferiti, fra momenti che vorrebbero essere performance perturbanti (del sangue-ketchup su una lastra di plexiglass) e che però sono in odore (con rispetto parlando) più di Andrea Dipré che di Marina Abramović.
Certo, i momenti di luce ci sono, e sanno ancora squarciare l'ordinario: come quando il discontinuo flusso vira verso il reguetón, o appare – leggermente accelerata – questa perla di Yahritza Y Su Esencia, gruppo della quindicenne di LA Yahritza Martinez e dei suoi due fratelli. Una bomba.
Per il resto, però, poco rimane della potenza che fu. Serata storta? Ci può stare. O forse il paragone con il punk aveva senso, ed esaurita quella spinta iniziale, quella rottura oltre la quale nulla può essere più “nuovo”, si è costretti all’autoindulgenza, al fare il verso a se stessi sera dopo sera… un peccato. Voto 5.
Tornando al Lingotto, l’altra bocciatura – certo meno illustre – è per l’italiana Yendry. Transitata per X Factor senza particolari riscontri qualche anno fa, passata a cantare in spagnolo (è nata a Santo Domingo), è salita lo scorso anno agli onori della cronaca perché un suo brano – “Ya” – è stato inserito nella sua playlist di fine anno da Barack Obama. Ora, alcune testate ne avevano parlato nell’occasione come della “nuova Rosalìa italiana”. Ecco, se Rosalìa è un panino con il jamón serrano, a giudicare da quanto visto a C2C Yendry è una rustichella di Autogrill a 7 euro e cinquanta, come quelle che vendono al Lingotto. Certo poi quando sono le tre di notte e sei in autostrada senza cena anche la rustichella è il panino più buono del mondo, ma nel mezzo del festival di avant-pop più prestigioso in Italia è semplicemente una rustichella. Beat convenzionali, carisma e presenza sul palco tutta da trovare, una versione a cappella di “Almeno tu nell’universo” che neanche a X Factor, appunto. Poco da salvare. Voto 3.
Appendice 1: bere e mangiare
Una menzione per il food and beverage. Non è assolutamente sensato che al Lingotto, con migliaia di persone e live dalle 18.30 alle 4 del mattino, senza la possibilità di uscire pena il divieto di rientrare, le uniche opzioni per mangiare siano uno Spizzico e un Autogrill a prezzi maggiorati. È un festival europeo, adeguiamo anche l’offerta mangereccia.
Vagamente perverso, poi, il sistema di pagamento incorporato nei braccialetti e reso obbligatorio per tutto (tranne che per i summenzionati "ristoranti"). Attivazione (a fondo perduto): 2 euro. Cauzione per il bicchiere: 2 euro. Costo di birra (abbastanza) piccola: 7 euro = prima consumazione minimo 11 euro. Ricariche fisse a 10, 20, 50 euro minimo. Nessuna combinazione di consumazioni fa un numero intero di euro. Nei meandri del Lingotto si crea presto una economia parallela, in cui giovani intraprendenti acquistano cash up front bicchieri vuoti per caricare i propri bracciali. Visto lo stile esibito da alcuni fan di Arca – a metà strada fra Mad Max e Rick and Morty – la sensazione di trovarsi in una distopia futuristica è palpabile. Anche questo è avant-pop?
PS: In teoria, è possibile ottenere il rimborso di quanto non speso con il braccialetto: sono 45 minuti che cerco di capire come farlo dalla app ufficiale, senza fortuna. Anche l’amico Ennio Bruno, che pure lavora nell’informatica, ha ceduto. A saperlo, mi portavo a casa 20 bicchieri e cercavo di piazzarli sul mercato informale.
PP.SS: Aggiornamento del giorno dopo. Dalla app non si riesce ma ho compilato un form, tipo rimborso di Trenitalia. Dice che il processo della mia pratica potrebbe durare fino a 30 giorni. Dall'avant-pop al post-pagato?
Appendice 2: il contraddittorio
Senza commenti, senza giri di parole, i voti del sopra citato Ennio Bruno.
Lyra Pramuk: 5. Arca: 7.5. Autechre: 9. Jockstrap: 6,5. Caribou: 7. Jamie XX: 8. Makaya McCraven: 7. Pa Salieu: 8. Caterina Barbieri: 7. Bicep: 8,5. Yendry: 2.
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