Biennale Musica tra i due mondi
Comincia la Biennale di Venezia, con Stockhausen, Tan Dun e Demdike Stare
Guarda verso Oriente la Biennale Musica 2017, nell’ottica di un’indagine sulle reciproche influenze tra i due “mondi”, tema che chiaramente necessiterebbe di assai più spazi e articolazioni e che qui offrirà comunque alcune ipotesi di ragionamento.
La serata d’apertura vede la prima esecuzione italiana (ma una versione con orchestra su nastro era già passata per Angelica a Bologna qualche anno fa) di Inori di Karlheinz Stockhausen, un lavoro tra i più dotati di forza mistica nel repertorio del compositore tedesco, ispirato – nella gestualità rituale dell’adoratore posto su una pedana sopra l’orchestra – da una serie di segni/formule che corrispondono ai parametri compositivi e che sono tratti da pratiche religiose di tutto il mondo.
Dopo un doveroso e commosso ricordo della figura di Mario Bortolotto da parte del Presidente della Biennale, Paolo Baratta, il direttore artistico Ivan Fedele ha introdotto la serata con una potenzialmente interessante quanto eccessivamente lunga chiacchierata con alcuni dei protagonisti della serata, nonché con due interpreti storici di Inori, Alain Louafi e Kathinka Pasveer.
Qualcuno dalla platea rumoreggia, qualcun altro se ne va prima ancora che il pezzo cominci e fa certamente male, perché l’esecuzione dell’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Marco Angius sarà poi di grande valore.
Nonostante la dispersività “visiva” della disposizione degli orchestrali, Angius governa con precisione la partitura di Stockhausen, facendo brillare i timbri e restituendo a Inori quella coloratissima tridimensionalità che nella prima parte è difficile intuire e che invece si apre poi con una sapienza estetica a tratti travolgente. Brava Roberta Gottardi nel non facile ruolo dell’adoratrice/mimo, cui dona una plasticità semplice, ma sempre centrata. Il pubblico apprezza e tributa a tutti i meritati applausi.
La serata termina poi con un live dei Demdike Stare, duo inglese di elettronica che il mondo della contemporanea ha “scoperto” solo recentemente, quando sono stati invitati da Nuova Consonanza a rielaborare alcune esecuzioni storiche del gruppo romano.
Da sempre attratti da fonti sonore “oscure” e variegate, nonché da molte musiche prodotte in Italia negli anni Sessanta e Settanta, sia nell’ambito della cosiddetta library music che – appunto – in quel fertile underground in cui potevano muoversi compositori e improvvisatori, i Demdike Stare offrono a Venezia un set interessante, ma forse un po’ trattenuto, nella cui pulviscolare tessitura emergono frammenti di Luigi Nono e di altre fonti delle avanguardie del Secondo Novecento.
Come spesso accade in questi casi, si intuisce come il duo “senta” forse l’importanza dell’occasione e si trovi – immagino del tutto inconsciamente – a evitare di premere sull’acceleratore, con l’esito in fondo di non sfruttare al massimo l’opportunità (potenzialmente detonante) di muoversi all’interno di un contesto formalmente molto lontano da quello di provenienza. Verso la fine del set il tutto sembra decollare, ma la serata finisce un po’ all’improvviso, quando si stava iniziando a fare sul serio.
Il sabato sera è invece tradizionalmente dedicato alla consegna del Leone d’oro alla carriera, quest’anno assegnato al compositore cinese Tan Dun. Sorridente e simpatico, il musicista ringrazia molto diplomaticamente un po’ tutta la famiglia e il suo entourage professionale, prima di voltare le spalle al pubblico (fisicamente, mentre metaforicamente diremmo certo il contrario) per assumere la direzione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.
In programma dapprima Passacaglia: Secret Of Wind And Birds, lavoro caratterizzato dall’interazione con i telefoni cellulari degli orchestrali e del pubblico, usati per creare una fitta foresta di suoni di uccelli (eseguiti da antichi strumenti cinesi) tramite un file registrato e scaricabile prima del concerto. Il pezzo è piacevole e accattivante nella sua trovata, lasciando tutti con il sorriso (e qualche maldestro spettatore ancora a produrre qualche sporadico “peeep-tweeet” anche nei minuti successivi).
Sia il Percussion Concerto che il Concerto per Orchestra che completano il programma lasciano l’impressione di essere lavori scenografici e ben strutturati, ma più vicini all’ammiccante spettacolarità hollywoodiana che non a una nuova sintesi tra Oriente e Occidente.
Nel primo lavoro (il più apprezzato dal pubblico) si distingue il funambolico lavoro alle percussioni da parte di Simone Rubino, mentre nel secondo emergono di volta in volta momenti in cui sono protagonisti singoli elementi dell’orchestra. I tanto decantanti elementi “organici” (tipici della musica di Tan Dun) si limitano qui in fondo all’uso delle pietre e il tutto ha una certa prevedibilità ritmica nonché armonica, declinata con enfasi tutta cinematografica. La serata scivola così via piacevolmente, lasciando nei commenti del dopo-concerto più di qualche interrogativo sul reale peso specifico del pur simpatico maestro cinese e di quello che in fondo a me sembra un, pur gradevole, “esotismo di ritorno” (e viene da sorridere se si pensa quanti originalissimi musicisti sono tuttora ignorati – o al massimo relegati in sezioni off/ricreative – in questo contesto a causa della loro origine extra-accademica, mentre una musica in fondo prevedibile e calligrafica, ancorché ben confezionata, come quella ascoltata alle Tese l’altra sera luccichi d’oro leonino).
Sbrigate dunque, con eleganza, le pratiche diplomatiche, si può partire verso Oriente (dei concerti dei prossimi giorni daremo qui conto insieme a Stefano Nardelli). Allacciate le cinture!
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