Berenice e gli altri due
All’Opéra Garnier successo per la Bérénice, la nuova opera di Michael Jarrell tratta da Racine
A chi il nome di Tito evoca il politico intrigante ma clemente dell’opera mozartiana (e non solo), può sembrare strano pensare a Tito amante focoso. Ebbene, a Michael Jarrel interessa proprio quello e per raccontarcelo parte dalla tragedia omonima di Racine alla base della sua nuova opera, Bérénice, commissionata dall’Opéra national de Paris accolta con calore alla prima assoluta nella sontuosa sala di Palais Garnier.
Il Tito che si racconta è quello fresco di perdita del padre Vespasiano e trionfante sulla rivolta in Galilea con la distruzione del tempio di Gerusalemme. Con Berenice, regina di Palestina, è colpo di fulmine reciproco. Ma di lei è perdutamente innamorato anche Antioco, sovrano di Comagene e fedele alleato di Tito. Nonostante l’amore per Berenice, a Roma Tito viene messo davanti a una difficile scelta e fra prevalere la ragione di stato rinunciando all’amore. È un colpo durissimo per entrambi e per Antioco, che si scontra con l’ostinato rifiuto della donna. Magra consolazione, Tito convince Berenice a rinunciare ai propositi suicidi e a far ritorno nella sua terra. L’infelicità è comunque assicurata per tutti.
Nel comporre a sua tragedia in cinque atti in puri versi alessandrini, Racine aveva in mente il giovane Luigi XIV anche lui costretto a rinunciare all’amata Maria Mancini per sposare l’Infanta di Spagna Maria Teresa come imposto dal trattato dei Pirenei per suggellare la pace fra le corone di Francia e di Spagna. C’è la grande storia dunque ma nella riduzione librettistica firmata dallo stesso Jarrell per la sua opera in quattro sequenze separate da brevi interludi orchestrali non resta traccia. L’alessandrino originale è piegato a una lingua, anche musicale, scarna e essenziale della contemporaneità, più adatta alla grammatica dei sentimenti: la storia di Berenice e degli altri due ha l’universalità dell’impossibilità o almeno della difficoltà di amare (e la ragion di stato non è che uno degli infiniti possibili pretesti).
Questo sembra voler dire l’esemplare allestimento di Claus Guth, quasi un saggio di limpidissima lucidità del suo teatro più autentico. Tre ambienti di severa eleganza classicista allineati frontalmente, disegnati da Christian Schmidt, come tre luoghi di isolamento nei quali si consuma il doloroso tormento esistenziale dei tre protagonisti, Tito, Berenice e Antioco, completamente spogliati di qualsiasi attributo regale e restituiti alla loro animalesca umanità. Animalesca è la tensione molto fisica fra Tito e Berenice che racconta un’altra storia rispetto a quella che la razionalità della politica impone. Come lottatori allo stremo delle forze, i loro amplessi sono dolorosi e lasciano ferite profonde che i loro volti deformati in grida mute denunciano.
Più ancora che sulla performance vocale, che Jarrell risolve con un declamato dal colore uniforme (come uniforme è l’accompagnamento musicale dominato dalla penombra, appena increspata dal clangore di accordi metallici o dai ruggiti dell’orchestra piena), il valore dei tre protagonistiBarbara Hannigan, Bo Skovhus e Ivan Ludlow si coglie soprattutto nella non comune fisicità prestata ai rispettivi ruoli di Berenice, Tito e Antioco. Non meno riuscite le prove dei tre “alter ego” dei protagonisti, cioè Rina Schenfeld, una compassionevole Phénice recitante che si esprime con Bérénice nella lingua madre ebraica, Alastair Miles, l’impassibile Paulin come la ragion di stato che difende, e Julien Behr, un Arsace trepidante come l’amico Antioco.
Levigatissima, la direzione di Philippe Jordan mette in valore soprattutto il bel suono dell’Orchestre de l’Opéra perfettamente integrato con l’elettronica, in coerenza con un’opera che tratta la compagine orchestrale sostanzialmente come paesaggio sonoro, lasciando alla parte vocale tutta la sostanza drammatica del lavoro.
Sala gremita, molti applausi per tutti gli interpreti.
Michael Jarrell parla di Bérénice
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