Arguta e spiritosa la Gazzetta, ma non è lì che bisogna cercare il genio di Rossini

Buon successo dell’unica opera buffa “napoletana” di Rossini, ripresa al ROF nell’allestimento del 2015

La Gazzetta (Foto Amati Bacciardi)
La Gazzetta (Foto Amati Bacciardi)
Recensione
classica
Pesaro, Rossini Opera Festival, Teatro Rossini
La Gazzetta
10 Agosto 2022 - 18 Agosto 2022

Può sembrare strano che Rossini, che ha portato al suo apogeo l’opera comica italiana, ne abbia scritta una sola per Napoli, che era la mecca di questo genere musicale. Forse la spiegazione è che l’opera buffa a Napoli era considerata una gloria locale e un patrimonio da preservare gelosamente e quindi non riusciva a scrollarsi di dosso le sue ormai vetuste tradizioni, come le parti “buffe” in stretto dialetto partenopeo e i personaggi muti affidati ai mimi, i quali, poiché la loro parte non era ovviamente scritta nel libretto e tanto meno nella partitura, potevano liberamente improvvisare le gag comiche più esilaranti ed erano spesso i veri “divi” dell’opera buffa napoletana, più dei cantanti stessi (e qualcosa di simile si è verificato ora anche a Pesaro, dove il mimo Ernesto Lama, napoletano purosangue, ha avuto un grande successo personale). Gli argomenti erano poco più che dei pretesti per inanellare più o meno sempre le stesse situazioni comiche, a base di equivoci, travestimenti, inganni e bisticci, che sono di scarso o nullo interesse nell’anno di grazia 2022. La loro vivacità tutta esteriore non ti cattura e anzi a lungo andare ti fa guardare spesso l’orologio, mentre Il Barbiere di Siviglia e Cenerentola, che rispettivamente precedono e seguono La Gazzettadi pochi mesi, ti sembrano sempre durare troppo poco.

Il risultato è che La gazzetta - presentata nel 1816 al Teatro dei Fiorentini, tempio napoletano dell’opera buffa - non sia mai uscita dal regno di Napoli nel corso dell’Ottocento e anche ora, dopo essere stata riscoperta dal Rossini Opera Festival di Pesaro nel 2001 e successivamente ripresa altre volte, non riesca ad affermarsi sui palcoscenici. Intendiamoci, stiamo pur sempre parlando di Rossini, quindi anche nella Gazzetta non mancano le idee argute e spiritose, ma raramente geniali, tanto che a tratti si potrebbe attribuirle a qualche altro buon compositore di opere buffe dell’epoca, come Valentino Fioravanti o Giuseppe Mosca. La controprova è che non è facile indovinare quali siano le due arie scritte da un anonimo collaboratore di Rossini. Numerosi sono gli autoimprestiti, cioè la riutilizzazione da parte di Rossini di brani di proprie opere, che hanno l’effetto spiazzante e divertente di catapultarci improvvisamente in un’opera diversa.

Che La Gazzetta non sia un capolavoro assoluto, non facilita il compito degli interpreti. Tutt’altro. Ma il cast è di ottimo livello. Il basso Carlo Lepore è un Don Pomponio di monumentale buffoneria e ridicolaggine, ma perfettamente controllato, coìsicché non scade mai in eccessi e forzature. È allo stesso livello il baritono Giorgio Caoduro nella parte di Filippo, la cui comicità è meno caricata (ad eccezione della esilarante scenetta in cui si presenta mascherato da cinese, secondo il regista, o da quacquero, secondo il libretto) ma non meno divertente. Pietro Adaìni è un tenore leggero leggero, che canta con gusto e giustamente evita di forzare la sua voce naturale in quei rari momenti in cui la parte di Alberto gli chiederebbe un po’ di più. Il soprano Maria Grazia Schiavo (Lisetta) ha voce limpida e ottima tecnica. Il mezzosoprano Martiniana Antonie era una frizzante Doralice. Promettente la giovanissima terza donna Andrea Niño nella parte di Madama la Rose, cui spetta una delle due arie scritte da un collaboratore di Rossini, significativamente applaudita dal pubblico quanto se non più delle arie autografe. Meritano la citazione anche Alejandro Baliñas e Pablo Galvez, interpreti dei ruoli minori di Anselmo e Traversen. Carlo Rizzi sceglie i tempi giusti, accompagna con attenzione i cantanti, dà solidità e sicurezza alla discreta ma non eccelsa Orchestra Sinfonica G. Rossini di Pesaro, però avrebbe potuto metterci un po’ più di verve comica e di pepe. 

Giustamente il regista Marco Carniti nemmeno prova a cercare chissà quali significati in quest’opera e dirige gli otto cantanti (non sapremmo dire in che misura il nono personaggio, ovvero il mimo, seguisse le indicazioni registiche o si autogestisse) con mano leggera e divertita, riprendendo in chiave moderna i modi di recitazione di quegli ultimi esponenti del teatro comico napoletano di cui ci è giunta qualche documentazione filmata. Ma l’allestimento scenico, così come l’opera stessa, era piaciuto di più nel 2015, quando era stato proposto per la prima volta al festival pesarese. Chissà, forse quella cospicua parte del pubblico che ha dimostrato il suo gradimento con sonore risate e molti applausi, era al suo primo incontro con La Gazzetta e quindi era più sensibile di noi al suo fragile fascino.   

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