Anouar Brahem, stregati dallo oud
Il ritorno in Italia di Anouar Brahem in trio per il festival Ethnos di Napoli
Anouar Brahem è ritornato a suonare in Italia il 3 ottobre per la venticinquesima edizione dell’Ethnos Festival, nei giardini della splendida Villa Vannucchi a San Giorgio a Cremano. Tengono duro e fanno sul serio, nei labirinti burocratici del Covid nei quali sono caduti festival in apparenza intoccabili, l'associazione La Bazzarra e il festival di Gigi De Luca, presso molteplici luoghi del golfo napoletano (Portici, Torre Annunziata, Ercolano).
Il concerto, attesissimo, era insieme un "ritorno" e uno "straordinario": straordinario perché legato alle infinite potenzialità dell’oud, strumento principe del mondo arabo islamico, che Brahem domina, e ritorno perché condito da echi di nostalgia per un mondo musicale in cui il tipico e piccolo ensemble strumentale arabo (takht) non aveva più la dimensione che merita. Ma Brahem, uno dei più celebri musicisti tunisini, ha passato la lunga carriera tutta in questa direzione.
Alle pendici del Vesuvio, si è presentato in gran forma, in trio con Klaus Gesing (clarinetto basso) e Björn Meyer (basso elettrico), e con la giusta emozione di chi si esibisce all’altra sponda del mediterraneo. Sale sul palco da eroe, abbraccia l’oud con aurea mistica, alla ricerca di un'essenza che in oriente, per effimero repertorio, sanno essere sempre cangiante. L'aspetto centrale dell'esecuzione del favoloso musicista risiede proprio nel suo modo di fare musica: in maniera diretta, con pregevole comunicativa.
"The Lover of Beirut" e "Stopover at Djibouti" aprono il concerto in modo sperimentale e per molti versi creano l’atmosfera per tutto ciò che seguirà, con accenti spostati e tenuti su tempi incalzanti, particolari melodici in evidenza. Sotto le dita fluide e le agili pennate, armato di tocco guizzante come fiamme incalzava sempre di più e non smetteva di stupire il gioco ritmico con il basso, fatto di spettacolari balzi acrobatici. Più sobria e pacata la bellissima "The Astounding Eyes of Rita” (2009), di magiche invenzioni e di mondi sonori mai visti. Non è corretto parlare di virtuosismo: Brahem sull’oud fa tutto in poche posizioni, riesce millimetrico, mai sforzato ma fresco, facile, non toccato dalla fatica. L’oud diventa quindi emanazione diretta dell'anima, non si avverte mai separazione tra strumento ed interprete. Mai un calo di tensione.
Si ascolta poi "Astrakan cafè”; Brahem suona confidenziale, a tu per tu, come se fosse la prima volta che affronta il pezzo, inciso nel 1999. Dosa il tocco distillando una serie di pianissimo come sussurri che sfidano l'udito dei più. Controlla ogni volume persino nei momenti più esili dell’esecuzione. Scardina ogni convenzione di battuta, di scansione ripetuta, dove scorre libero il fraseggio creando forme e prospettive mai osate prima, che puntano sempre al sublime rompendo gli schemi e mirando al cuore.
Con "Waking State" e "al Birwa", quest’ultima tenace nei disegni ostinati, divertente e duttile nei vari crescendo, si approda a un'altra dimensione interpretativa, in cui si passano in rassegna i momenti topici di un'avventura artistica trentennale. Il suono strabiliante del trio dialoga con forme oscure, di sonorità introspettive. Sempre in accelerando e rubando. Tutti applaudono alzandosi in piedi con enorme festa, mentre il trio si profonde in inchini e ringrazia poi con il bis "Parfum de Gitane”. L’oud, con la sua multicolore tavolozza timbrica, dal suono distinto, ormai identitario, ha stregato il pubblico e il musicista, catturandone la devozione. Brahem riesce a magnetizzare per sperimentalismo e fantasia creativa.
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