Anna Caterina Antonacci signora del Seicento e del Novecento

Al Festival della Valla d’Itria un memorabile concerto di Anna Caterina Antonacci con musiche da Monteverdi a Respighi

Antonacci a Martina Franca
Foto di Clarissa Lapolla
Recensione
classica
Cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca
Anna Caterina Antonacci
31 Luglio 2020

Come definire Anna Caterina Antonacci? Una star? No,è un termine orami usato e abusato dai rotocalchi per definire chiunque sia – o pretenda di essere – appena al di sopra della mediocrità. Una prima donna? Non va meglio, perché rievoca cantanti del tempo che fu, dall’ego grottescamente smisurato. Convinte di essere più importanti non soltanto dei compositori ma del mondo in generale, cui riconoscevano la sola funzione di applaudirle. Sempre sopra le righe. Capricciose. Intrattabili.

Insomma il contrario esatto della protagonista dell’ultimo della bella serie di concerti del Festival della Valle d’Itria di quest’anno. Ma, in mancanza di termini più adatti, accontentiamoci di dire che Anna Caterina Antonacci è una grande prima donna, che procede però per sottrazione: via l’esibizionismo, via l’autocompiacimento, via la gesticolazione superflua, via i vezzi e i vizi vocali di ogni genere, come la sottolineatura di quanto sia acuta quella nota o grave quell’altra, via insomma tutto quello che non ha niente da spartire con la musica. Una volta rimasto l’essenziale, renderlo ancora più essenziale, esprimendolo con la massima semplicità di mezzi, con la massima purezza vocale, con la massima attenzione alla corrispondenza tra parole e note, con la massima concentrazione espressiva. 

Anna Caterina Antonacci signora del Seicento e del Novecento
Foto di Foto di Clarissa Lapolla

Tutto quel che finora ho detto – o cercato di dire –  può essere riferito anche per definire la musica di Claudio Monteverdi, a cui era dedicata la prima parte del concerto, e in particolare al Lamento d’Arianna, in cui il “recitar cantando” raggiunge uno dei suoi vertici. La Antonacci, che a differenza di altri resiste alla tentazione di sottolineare ogni spunto anche lontanamente cantabile reperibile nel “recitar cantando”, ne fa una recitazione intonata semplice e commovente, che esprime la sofferenza profonda e inconsolabile di una donna che scopre di essere stata abbandonata dall’amato e la cui reazione più vera in tale momento non è certamente fare una scena madre da primadonna. Quel che prova Arianna è soltanto dolore e disperazione profondi, mescolati all’affetto che ancora le suscita il ricordo del traditore, alla dolcezza con cui l’invoca (“O Teseo, o Teseo mio”), alla fragilità indifesa di chiunque si trovi in un tale frangente.

Poi la Antonacci è passata ad Ottavia nell’Incoronazione di Poppea, un’altra donna rifiutata e abbandonata, che in “Disprezzata regina” dimostra ben altra tempra della mite Arianna e, se non è nelle condizioni di opporsi a Nerone, medita sulla sua condizione di donna con parole che non sfigurerebbero in un manifesto del moderno femminismo: è sconfitta ma non si piega all’ingiustizia e alla prepotenza dell’uomo. La Antonacci coglie tutta la tragicità di queste due donne uguali e contrarie e l’esprime con una forza interiore che afferra lo spettatore per qualche misterioso magnetismo che non si può spiegare. Apparentemente non fa niente di speciale, ma lo fa benissimo, è essenziale e semplice, senza che un granello di superfluo s’insinui in tale essenzialità. E il superfluo in questa musica sarebbe, più che inutile, nocivo. 

La prima parte comprendeva anche “Vi ricorda, o boschi ombrosi” dall’Orfeo di Monteverdi, dove la Antonacci dimostrava una simile capacità di far sgorgare dal canto anche la felicità più piena, sebbene fugace. E si chiudeva con un brano della Médée  di Marc Antoine Charpentier, altra pagina splendida, che ci faceva toccare con mano la differenza tra musica italiana e francese nel periodo del barocco: la prima esprime gli affetti e l’altra i ragionamenti, la prima punta sui contrasti netti di luce e ombra e l’altra sulle sfumature.

In questa prima parte la Antonacci era accompagnata dall’Orchestra Cremona Antiqua, con Antonio Greco concertatore al cembalo e all’organo, che fra le pagine vocali fra le pagine vocali intercalava brani strumentali di Frescobaldi, Salomone Rossi e Georg Muffat.  

Poi la Antonacci voltava pagina e passava dal Seicento al Novecento e il piccolo gruppo barocco lasciava il posto al pianista Francesco Libetta, un accompagnatore di lusso, quale la Antonacci merita. Ha suonato splendidamente i brevi brani pianistici inseriti tra quelli vocali: memorabile Jeux d’eau di Ravel, in cui ogni singola nota aveva un colore diverso, solamente suo, in uno stupefacente, magico sfavillio sonoro.

Il primo dei brani vocali del Novecento era Sopra un’aria antica di Ottorino Respighi, in cui di antico non c’era nulla all’infuori del titolo, ma si ammiravano le moderne e raffinatissime armonie a mezza via tra wagnerismo e impressionismo, adeguate ai versi  preziosi e decadenti di Gabriele D’Annunzio: la Antonacci si lasciava avvolgere da queste armonie come una delle nobildonne fasciate dalle voluttuose stoffe di un elegante abito della belle époque che ci appaiono nei ritratti di Boldini. Si proseguiva con tre delle sette liriche che costituiscono il poemetto La canzone dei ricordi di Giuseppe Martucci: anche qui grande profusione di ricche e raffinate – ma non quanto quelle di Respighi –armonie postwagneriane, un po’ sprecate però per i modesti versi dell’allora celebre Rocco Pagliara. 

Finale con Francis Poulenc. La Dame di Monte Carlo  è il breve monologo di una vecchia signora che ha perso tutto al casinò e decide di porre fine alla sua vita gettandosi in mare: un piccolo capolavoro interpretato dalla Antonacci  con perfetto equilibrio tra ironia e tragedia. L’ultimo brano in programma era una breve mélodie, ancora di Poulenc, ma la vera conclusione era il folgorante bis, “L’amour est un oiseau rebelle” di Carmen, cantato come non l’abbiamo mai sentito e come d’ora in poi vorremmo sentirlo sempre: una semplice canzone su un accompagnamento che imita la chitarra, che una ragazza canta quasi sotto voce a se stessa (“je chante pour moi-même”, dirà Carmen in seguito) in un caldo pomeriggio andaluso, pensando non all’amore in generale ma a quel che l’amore è per lei, sensualità, libertà, gioco, vita, non teatro, esibizione, sfoggio di voce. 

Il pubblico, che aveva seguito il non facile programma propostogli con grande attenzione e calda partecipazione, a quel punto è impazzito: cos’altro poteva fare?

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