Amaro Montenegro
L’Oper Dortmund porta in scena l’opera “La montagne noire” di Augusta Holmès in collaborazione con il Palazzetto Bru Zane
“La critica è stata generalmente severa con l’opera di Mlle Holmès, che l'Opéra ha appena rappresentato. Non è che La montagne noire offra molto di nuovo, ma almeno sarebbe stato giusto riconoscere che questa partitura non è né migliore né peggiore di una miriade di altre che sono state inondate di elogi” Difficile non concordare con il giudizio espresso da Paul Dukas nelle pagine de La revue hebdomadaire qualche giorno dopo l’8 febbraio 1895, data del debutto del dramma lirico in quattro atti all’Opéra di Parigi. Dopo un lunghissimo oblio, il lavoro di Augusta Holmès è tornato ora in scena grazie all’impegno dell’Opera di Dortmund e soprattutto all’impulso del Palazzetto Bru Zane, che torna a collaborare con il teatro tedesco un paio di stagioni dopo l’apprezzato allestimento di Frédegonde di Ernest Guiraud e Camille Saint-Saëns.
Responsabile principale dell’accoglienza tiepida non fu tanto la solida scrittura musicale della compositrice, fervida ammiratrice di Richard Wagner, al quale tributò visita nel 1869 per rivedere in seguito il suo giudizio sull’uomo complici le tormentate vicende politiche fra Francia e Germania (“mi rifiutai persino di rivederlo dopo i nostri disastri, ritenendo inutile e di cattivo gusto inchinarmi davanti all'uomo che aveva insultato la Francia il giorno dopo la sua capitolazione”), quanto la debole drammaturgia del libretto scritto dalla stessa Holmès, come sottolineato da diversi altri spettatori illustri come Claude Debussy (“La musica di Mlle Holmès, scritta su una poesia di scarso interesse, ha qualità teatrali un po’ pesanti, ma concrete”) ed Émile Pessard (“Il soggetto è naïf e manca di situazioni drammatiche sufficientemente varie per renderlo interessante: un vero peccato”).
La montagna nera del titolo allude al Montenegro, nel quale è ambientata l’amara vicenda di amore e morte, che si svolge nel XVII secolo sullo sfondo delle lotte fra le popolazioni locali e i dominatori ottomani. Come nell’Otello verdiano, il sipario si apre nel pieno di una battaglia fra ottomani e montenegrini, risolta rapidamente con la vittoria di questi ultimi grazie all’eroismo di Mirko e Aslar. Festeggiati dagli abitanti del villaggio, i due giovani eroi celebrano il rito della fratellanza di sangue officiata dal pope Sava. A festeggiamenti in corso, alle porte del villaggio viene catturata una donna turca, Yamina, salvata dal linciaggio da Mirko che la consegna come schiava alla madre Dara. Inutile dire che Mirko rimane folgorato dalla potenza seduttiva di Yamina, novella Carmen, e dimentica presto la fidanzata Héléna scappando sulle montagne con la donna che gli ha fatto conoscere l’amore sensuale. Come Tannhäuser, Mirko vive il conflitto fra l’attrazione fatale per Yamina, che non molla la solida presa seduttiva su di lui, e la lealtà verso il suo popolo e soprattutto verso il fratello di sangue Aslar. Dopo un primo tentativo fallito di riportare Mirko sulla retta via, Aslar uccide Mirko, irrimediabilmente irretito da Yamina, e quindi si toglie la vita per onorare il patto di sangue con l’amico.
Se la dimensione politica dello scontro di civiltà è presente ne La montagne noire, nucleo drammaturgico è la vicenda sentimentale arricchita da un tocco di esotismo balcanico, in ossequio alla moda “fin de siècle”. L’allestimento curato dalla regista Emily Hehl, invece, insiste molto sulla dimensione epico-folkloristica della trama. Come preambolo alle wagnerianissime fanfare di ottoni che aprono l’opera, sul proscenio la serba Bojana Peković intona un canto tradizionale sulla morte di Marko Kraljević, il principe Marko protagonista della resistenza agli Ottomani in svariati poemi popolari diffusi fra le popolazioni del sud dei Balcani. Quasi da testimone muta di una storia secolare di scontri di civiltà, Peković seguirà dal proscenio tutta la rappresentazione fino al finale con la beatificazione dei due fratelli eroi. Di gusto etnico sono anche i costumi folkloristici di Emma Gaudiano, mentre la scena di Frank Philipp Schlößmann, ben illuminata da Florian Franzen, è un contenitore neutro fortemente prospettico, funzionale a un racconto scenico piuttosto statico e illustrativo nella prima parte e più fantasioso nella seconda parte, ambientata fra le alte montagne montenegrine e quindi nella dimora ottomana di Yamina. Qui la regista sembra cambiare registro puntando sulla chiave onirica ma finisce per imbrogliare ancor più le carte di una drammaturgia già confusa alla fonte.
Piuttosto efficace la realizzazione musicale guidata con vigore wagneriano da Motonori Kobayashi, più convincente nei diversi momenti epici che nelle parentesi sentimentali, peraltro piuttosto sbrigative. Buona la prova dei Dortmunder Philharmoniker e anche di più quella dell’Opernchor del Theater Dortmund rinforzato con il coro Projekt efficacemente preparati da Fabio Mancini. Molto solide anche le prove dei protagonisti vocali a partire dai due protagonisti maschili Sergey Radchenko, che sfodera un grande vigore tenorile per Mirko nonostante gli annunciati malanni di stagione, e Mandla Mndebele, un sensibile Aslar di buona tenuta vocale. Fra i ruoli principali femminili, vince su tutte (e vince facile) la “femme fatale” Yamina ha le movenze sensuali e il timbro brunito di Aude Extrémo, mentre in secondo piano restano la garbata Héléna di Anna Sohn e la più corposa Dara di Alisa Kolosova, personaggi di cui si perdono le tracce dopo il secondo atto. Fra i ruoli secondari spicca soprattutto il corposo Sava di Denis Velev.
Recupero interessante purtroppo disertato dal pubblico alla prima. Dai presenti, comunque, accoglienza festosa per tutti alla fine della lunga serata.
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