Alessio Boni è Beethoven

Prima assoluta di Ludwig, “concerto di parole” alla Casa del Jazz di Roma, con Alessio Boni e con Francesco Libetta al pianoforte

Alessio Boni - Ludwig - Roma Casa del jazz
Recensione
classica
Roma, Casa del Jazz
Ludwig
26 Luglio 2020

Un concerto spettacolo o più esattamente un “concerto di parole” per il duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Beethoven, intitolato semplicemente Ludwig, è stato presentato in prima assoluta da I Concerti nel Parco nel magnifico spazio all’aperto (quasi mille posti, ma non in tempo di distanziamento sociale) della Casa del Jazz di Roma, cui seguiranno altre tappe in giro per l’Italia. È stato ideato da Filippo Michelangeli e ha coinvolto Bianca Melasecchi per il testo e Alessio Boni e Francesco Libetta per la realizzazione sul palcoscenico. 

– Leggi anche: #Beethoven250

Il Beethoven che vediamo in scena è già anziano – morì a cinquantasei anni compiuti da pochi mesi, ma i suoi contemporanei ci dicono che ne dimostrava settanta, un’età allora molto avanzata – e Boni lo incarna con una scarmigliata criniera bianca e un frack stazzonato e consunto, come appare nei ritratti: in alcuni momenti – specie in alcuni scatti fotografici – la somiglianza è impressionante. Questo Beethoven non parla sempre in prima persona, tanto che comincia col racconto della propria morte, così come l’ha narrata ai posteri l’amico Hüttenbrenner, probabilmente aggiungendovi qualcosa di suo – il fulmine improvviso, Beethoven che alza il pugno come sfidando gli elementi, e spira – per contribuire alla leggenda del Beethoven titanico. Ma giustamente alla Melasecchi interessa poco se è realtà o leggenda, perché è un’autrice di testi teatrali e di sceneggiature per il cinema e la tv e non vuole scrivere un testo di storia o di musicologia ma una pièce teatrale. Questo non significa affatto che sia un testo fantasioso, perché l’autrice parte da documenti dell’epoca o anche successivi, come alcune parole di Wagner, che ovviamente non poté mai incontrare Beethoven per ragioni anagrafiche e che dunque è un testimone non totalmente attendibile ma comunque autorevole di per sé. 

Beethoven Boni Ludwig Casa del jazz roma

Ne nasce un testo molto avvincente, che inanella nella narrazione considerazioni sulla musica di Beethoven, sui suoi ideali artistici e sulla sua personalità, giungendo a offrire in poco più di un’ora un ritratto per quanto possibile completo dell’uomo Beethoven: che poi chi lo conosca già piuttosto bene possa dissentire su alcuni punti è inevitabile, ma questo succederebbe anche se la Melasecchi fosse un’esimia studiosa di Beethoven. Direi anzi che, al contrario, è sorprendente che i punti di dissenso siano pochi e in fin dei conti marginali. 

D’altronde Melasacchi, che musicologa non è né vuole esserlo, può e deve andare oltre i documenti nudi e crudi, per cercare di scandagliare nell’intimo del grande artista, laddove nessun documento ci potrà mai portare. Quel che scrive è molto teatrale, drammatico e a tratti commovente: penso in particolare – ma non solo – alla storia del rapporto di Beethoven col nipote Karl, che Ludwig-Boni narra piegato in due dal dolore, spalle al pubblico.

Veniamo così a come Alessio Boni interpreta Ludwig, ma sarebbe più preciso dire come lo incarna, perché tende a un’immedesimazione totale col protagonista della pièce. La voce è roca, sofferente ma vigorosa, quasi rabbiosa, come in una continua sfida di Beethoven al mondo a cui si sentiva estraneo, alle malattie – dalla sordità all’idropisia – che lo affliggevano, alle persone che non lo comprendevano e soprattutto che egli non riusciva a comprendere. Una recitazione istrionica – nel senso originario e buono del termine – che impegna ogni fibra dell’attore e gli richiede un vero tour de force, senza un attimo di tregua per oltre un’ora. 

A dire il vero l’attore ha alcuni minuti di tregua grazie agli interventi del pianoforte: lo suona Francesco Libetta e questo garantisce che la musica non sia solamente uno stacco per far respirare il protagonista. Sono frammenti, alcuni brevi, altri più ampi, delle opere di Beethoven, per lo più originali per pianoforte ma anche trascrizioni di sinfonie e altra musica per orchestra. È nei due pezzi più ampi che Libetta può far capire veramente che pianista di vaglia sia. Pensiamo al primo movimento della Sonata “Al chiaro di luna”, nitido e con poco pedale, non sentimentale ma tragico, quale deve essere (i primi appunti di Beethoven partono dalla morte del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart). Pensiamo a “Per Elisa”, croce e delizia dei pianisti principianti, di cui Libetta rivela la profondità, che sinceramente non sospettavamo.

Caldo e meritato successo.

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