Al Barbiere non serve il balletto
Scala: Chailly sul podio per Rossini firmato Muscato
Prima nuova produzione della sovrintendenza di Dominique Meyer, Il barbiere di Siviglia diretto da Riccardo Chailly per la regia di Leo Muscato. Una sfida non da poco perché nella memoria di molti spettatori rimangono indelebili le edizioni firmate da Ponnelle (Abbado) e Arias (Chailly), eppure superata con disinvoltura. Principalmente per merito del direttore cui il buon Gioachino ha trasmesso una ventata di giovinezza, senza fargli perdere la lunga esperienza con quest'opera, e un gioioso entusiasmo che ha contagiato l'orchestra. Già dall'ouverture, rispettosamente eseguita a sipario chiuso, trasparente, tesissima, s'è capito come sarebbe andata, tutto è seguito di conseguenza. Con anche molti momenti soprendenti, uno per tutti le mai udite asprezze beffarde risuonate in buca durante "La calunnia". Complice un cast fuori dal comune. Il Figaro impunito e spavaldo di Mattia Olivieri, perfetto nella parte, l'elegante Almaviva di Maxim Mironov, Marco Filippo Romano, grande esperto di don Bartolo che qui ha interpretato per la centesima volta, capace di sillabazioni a mitraglia, la giovane e graziosa Svetlina Stoyanova (Rosina), Nicola Ulivieri (Basilio), Costantino Finucci (Fiorello e Ufficiale) e Lavinia Bini (Berta) che nell'aria dell'ultimo atto è riuscita perfino a sfoderare una divertente impennata.
Il regista Leo Muscato è partito dalla considerazione che molti personaggi dell'opera sono legati alla musica (Fiorello organizza la serenata, Rosina studia canto, don Bartolo rimpiange vecchi cantanti d'opera, Almaviva si traveste da maestro di musica) e che nella pièce di Beaumarchais il protagonista compare come un compositore sfortunato. Da qui l'idea del gioco dell'opera nell'opera, con la scena ideata da Federica Paolini, dove Figaro diventa il deus ex machina di uno spettacolo da allestire, con tanto di strumenti da carpentiere alla cintola, il che gli permette di manovrare siparietti, oggetti, trasformare un baule in bottega da barbiere, di procurare quanto serve, compreso un secondo sipario per isolare alcuni momenti, con uno schiocco delle dita. Una magia che funziona bene e alleggerisce lo spettacolo. Dal canto loro don Bartolo figura essere l'impresario della compagnia, Berta la coreografa, Almaviva dirige da sé il concertino sotto le finestre di Rosina, che è l'étoile del corpo di ballo. Su questo Moscato ha lasciato mano libera al coreografo Nicole Kehrberger che ha inventato una schiera di maschi in tutù (tipo Lago dei cigni di Matthew Bourne) che intervengono quando uno meno se l'aspetta, alla prima entrata in scena di Rosina come durante il momento sinfonico del temporale. Oltre queste ci sono altre invadenze coreografiche, dei ginnasti ballerini coi quali s'intrattiene Figaro e sul palco alle spalle dei cantanti una compagnia teatrale con parrucconi settecenteschi. Sono tutte apparizioni che finiscono per appesantire la messa in scena e sanno quasi di beffa del destino. Perché chiunque abbia familiarità con le regie rossiniane al Rof di Pesaro sa bene quanto siano imbarazzanti i balletti da Grand Opéra ed è stupefacente che abbiano voluto introdurre un balletto proprio in un'opera buffa, che ne farebbe proprio a meno.
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